Quello strano vecchio cappello di Rembrandt

In Letteratura

La tecnica di scrittura di Malamud assomiglia ai ritratti di Rembrandt nei quali il pittore olandese rivela un’acutissima capacità di introspezione psicologica. Malamud vi aggiunge una componente umoristica, quasi grottesca

Nel 1977 esce nelle sale americane Annie Hall di Woody Allen che inizia così: «C’è una vecchia storiella. Due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice: “Ragazza mia, il mangiare qua dentro fa veramente pena”, e l’altra: “Sì, è uno schifo, ma poi che porzioni piccole!”. Be’, essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco»

Pochi anni prima, nel 1973, era uscita una raccolta di racconti dell’ormai affermato Bernard Malamud, Il cappello di Rembrandt (tornato ora in libreria grazie ai tipi di minimum fax). Robert Kiely, recensendo il libro sul New York Times  nel giugno dello stesso anno, enuclea così i temi: «fallimento, sconfitta, solitudine, vecchiaia. Una triste lista. Eppure ognuno è colpito, se non redento, da un humour malinconico ed ironico e una fantasia audace». Parole che potrebbero adattarsi, senza troppe forzature, anche a Io e Annie e molti altri lavori di Allen. Ad accomunare i due non è solo la religione ebraica, d’altronde, ma piuttosto un certo coté artistico yiddish new yorkese; una tendenza a fare del comico e del tragico due facce della stessa medaglia (e lo stesso Malamud, d’altronde, amava accostare i suoi lavori a quelli di Charlie Chaplin).
Laddove però la nevrosi ha tanta importanza nel lavoro di Allen, in quello di Malamud sembra prevalere il dubbio che porta a non dissimili arrovellamenti e continui ripensamenti.
La trama, non di rado, sembra andare avanti quasi per inerzia, soffocata dalle insicurezze sul da farsi e dalla paure dei personaggi. Ciononostante spesso Malamud ha avuto modo di sottolineare l’importanza delle storie per il suo lavoro: «storie, storie, storie: per me non esiste altro. Spesso gli scrittori che non riescono a inventare una storia seguono altre strategie, perfino sostituendo lo stile alla narrazione. Invece io sono convinto che la storia sia l’elemento di base della narrativa, anche se questo ideale non gode di molta popolarità tra i discepoli del nouveau roman. Mi ricordano quel pittore che non riusciva a dipingere le persone, così dipingeva le sedie».

A dipingere le persone Malamud sembra, invece, terribilmente bravo: «anche quando c’è poco in gioco, i personaggi di Malamud sembrano sempre avere un grado assoluto di autenticità. La dico meglio: i suoi personaggi non hanno nulla di letterario. Anche quando sembrano ispirarsi a dei cliché letterari, sono maledettamente reali. Pochissimi scrittori riescono a fare lo stesso» così Giorgio Fontana, che ha scritto la prefazione all’edizione dei racconti di minimum fax.

I personaggi sembrano anche essere i motori della storia, tolti i loro dubbi, il loro interrogarsi, il loro tornare sui propri passi (letteralmente e metaforicamente), il loro continui what if?, al livello di trama non resta molto.

Prendiamone uno dei più belli: A riposo. Se volessimo riassumerlo ci basterebbe dire semplicemente che un vecchio signore legge una lettera indirizzata ad una donna che abita nel suo stesso palazzo, ne è incuriosito e decide di scriverle anche lui una molto inusuale – ed estremamente diretta – lettera di corteggiamento. Ma la penna di Malamud fa molto di più: ci mostra tutte i disagi, le attese, le speranze, le sofferenze – e anche le nevrosi, in questo come Woody Allen – della vecchiaia. L’anziano arriva addirittura a rubare le lettere della donna tanto ne diventa ossessionato.

«Era stupito… addirittura gli pareva un affronto che gli capitasse questo alla sua età. L’aveva visto succedere ad altri, ai suoi pazienti d’un tempo, ma non se lo aspettava in se stesso. La brama che provava, brama di piacere, di abitudini buttate all’aria, di sensazioni rinnovate, nonché la paura che gliene veniva, continuavano a crescergli dentro come un albero morto ritornato in vita che stendeva i suoi rami. Si sentiva come se avesse fame di esperienze esotiche che, se le avesse avute, avrebbero potuto renderlo per sempre famelico. Non voleva che gli accadesse. Si richiamò alla mente varie figure mitologiche: Sisifo, Mida, i quali per un motivo o per l’altro erano stati condannati in eterno. Pensò a Titone, che, perduta la sua giovinezza, era diventato un grillo che avrebbe vissuto per sempre. Il dottore sentì di essere in preda a un’emozione che lo travolgeva, un terrificante vento di tenebra» (pag. 133).

 

Quello della vecchiaia è uno dei temi principali di questi racconti, come nell’assurda breve parabola di Teddy, protagonista di La lettera che si ostina a voler far spedire una lettera senza contenuto e senza mittente, ma invano, e nessuno riesce a capire le sue ragioni.
Questa regione del grottesco, presente in molti dei racconti di Il cappello di Rembrandt, svela immediatamente il suo lato umano: è il grottesco della vita quotidiana che non è mai lineare e razionale come vorremmo. E lo dimostra bene il racconto che apre il libro, La corona d’argento: nel disperato tentativo di salvare il padre morente, un figlio si rivolge a un rabbino per dei riti di guarigione pseudo-religiosi. Ma lo scetticismo, la difficoltà di accettare una realtà surreale come quella offertagli dal rabbino lo spingono ad urlare: «Mi odia, quel figlio di puttana, mi auguro che crepi». Un’ora dopo Gans padre chiudeva gli occhi e spirava.

Non meno surreale è il racconto eponimo. In realtà il cappello di Rembrandt è un po’ come Godot: nel racconto eponimo se ne parla molto, ma a ben vedere non c’è. La banale constatazione che il cappello di Rubin, scultore, assomiglia a quello di uno degli autoritratti di Rembrandt, manda l’artista in crisi. Il racconto è costruito tutto quanto sulle supposizioni di Arkin, l’unico altro personaggio, quello che ha fatto la comparazione iniziale, sul perché tale banale constatazione abbia causato una reazione tanto strana in Rubin. Arkin arriva fino al punto di immaginare i processi associativi della mente dell’altro:

«Comunque, Arkin, forse non perché abbia qualche significato particolare parla del cappello di Rembrandt sulla mia testa e mi augura buona fortuna nel mio lavoro. Quindi anche ammettendo che le sue intenzioni fossero buone… è comunque più di quanto io riesca a sopportare. In parole povere mi irrita. Il riferimento a Rembrandt, considerando la qualità del mio lavoro e ciò che provo in generale nei confronti della vita, è un grosso peso sulla mia anima poiché mi costringe a chiedermi ancora una volta – ma una volta di troppo – perché continuo così se è questo il tipo di scultore che sarò per il resto della vita. E poiché Arkin mi fa venire in mente la stessa malaugurata domanda qualsiasi cosa dica chi vorrebbe sentirne dell’altro? Da allora in poi io evito quel tipo… come dire per sempre».

Per essere arditi si potrebbe anche dire che la tecnica di scrittura di Malamud assomiglia ai ritratti di Rembrandt nei quali il pittore olandese rivela un’acutissima capacità di introspezione psicologica. A questo Malamud aggiunge una componente umoristica, quasi grottesca: il mondo descritto sembra infatti assolutamente autentico, ma affatto realistico, i suoi personaggi desiderano qualcosa di impossibile che però non si realizza mai. E dall’urto con questa impossibilità nasce la magia della scrittura di Malamud.

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