Impercettibili ed essenziali, le virgole sono l’adrenalina della scrittura: danno il ritmo e lo placano, sostengono la seduzione e alimentano il mistero. Sono, insieme, struttura ossea e respiro. Leonardo Luccone ne è sicuro: alla punteggiatura serve avvicinarsi “con un po’ di sprezzante curiosa allegria”. E nel suo libro racconta quando la lingua suona.
Se la lingua è uno spartito musicale, non ci resta che imparare a solfeggiare. Ascoltare il ritmo e intonarlo ai nostri sentimenti e alla nostra voce. Ci sono pause decise, pause che promettono un seguito, altre che lo annunciano, altre ancora che lo celebrano. Pause di riflessione, potremmo chiamarle anche così; perché questi silenzi, a volte impercettibili, non sono mai tempi vuoti ma attimi a volte decisivi, che permettono di far affiorare il non detto o di urlare il già scritto. Qual è il posto giusto di una virgola, di un punto e virgola, e anche di un punto, lo decide lo scrittore, e le scelte sono più numerose di quel che si crede.
La questione che riguarda le virgole, per parafrasare il titolo del nuovo libro di Leonardo Luccone, appassionato esploratore delle potenzialità della punteggiatura, è una questione affascinante ma assai spinosa. Ci sono le regole, poche, ma prima di popolare la pagina, i punti, e tutti i segni della famiglia della punteggiatura nascono e crescono nella mente dello scrittore, di solito uno che le regole le conosce molto bene, e si prende la libertà e il diritto di infrangerle. Nel suo libro, Questione di Virgole (Laterza), Leonardo G. Luccone ci segnala tantissime di queste infrazioni, o presunte tali, che attraversano la storia della letteratura. Da Dante a Proust fino ad Ammaniti, passando da Manzoni.
Prima di iniziare la conversazione con l’autore stabiliamo allora i punti fermi.
Le regole.
“Non capisco perché tutti mi fanno questa domanda. Le regole di base sono quelle della grammatica, e si trovano nel peggiore dei bignami o nella più scadente delle grammatiche. Sono così note che vengono sbagliate di continuo. Il motivo è semplice: non vengono più insegnate, insegnate con amore intendo.
Prendiamo la prima regola: «A meno di particolari ricerche espressive, non bisogna mettere la virgola tra il soggetto e il verbo». Facile: tra il soggetto e il verbo non ci va la virgola. Trovo il soggetto, trovo il verbo, e tra i due niente virgole isolate. Vale lo stesso tra il verbo e il complemento oggetto. Elementare, no? Poi apro a caso il giornale di oggi e trovo:
Tu chiamalo se vuoi, minimalismo.
Mi sa che dobbiamo ripensare come si insegna l’italiano a scuola; bisogna ripensare un bel po’ di cose su quel versante”.
In genere gli scrittori sanno come solfeggiare il proprio testo, lo ascoltano e poi decidono la qualità delle pause. Scelte che sono poi costretti a condividere con i lettori. Come si stabilisce la sintonia tra scrittore e lettore?
È un patto che ha regole di ingaggio complicate e inesplicabili. Secondo me sopra il testo c’è una nebbiolina, e il lettore deve decidere se metterci la testa dentro per vedere meglio oppure no.
Quello che ho notato in tutti questi anni a contatto con la scrittura è che i bei testi (e quindi i bravi scrittori) sono capaci di agevolare questa magia. La buona scrittura è in parte la conseguenza di una dote di ascolto, ma per scrivere bene bisogna scrivere tanto ed essere pronti a buttare tutto e rifarlo meglio. Ascolto, autoascolto e tanto ticchettio di tasti (o meglio ancora: faldoni pieni di parole).
Ascoltare la punteggiatura. Lei come fa?
La punteggiatura è cucita al testo ma fa la sua parte: può farlo deviare, svisare, o scorrazzarti per ore su una pista da cross; insomma, è in grado di costringere il testo a un certo andamento. Per ascoltarla dobbiamo prima di tutto vederla: quanta punteggiatura c’è?; com’è distribuita?; quali segni prevalgono?; quanto bianco c’è? prevale la regolarità o l’irregolarità? Il testo così segnato suona rock o jazz; metal, ambient, funk o è in levare come il reggae?
La punteggiatura è soggetta all’interpretazione, come d’altronde le partiture musicali. È buffo: la punteggiatura è una chiave per interpretare ma a sua volta può essere interpretata. Non se ne esce più. E poi mi vengono a dire che la punteggiatura è solo una questione matematica o di pause. Vede, siamo tornati alla riconoscibilità e da lì alla tavolozza della creatività.
Secondo il suo excursus, la punteggiatura risponde a tre ambiti funzionali: logico-sintattica, ritmico-intonativa, autoriale e metalinguistica. Ma verso la fine del libro arriva la vera rivelazione: la punteggiatura è la nostra guida sensopercettiva. In che senso?
Secondo me la punteggiatura ingloba due aspetti: la necessità e la riconoscibilità. È necessaria perché consustanziale alla scrittura: come lo sono il tatto, o la vista. Anzi no,
la punteggiatura è come l’equilibrio o la propriocezione. Se ne può fare a meno, ma saremmo irrigiditi e meno capaci di interagire con l’ambiente che ci circonda.
La punteggiatura completa l’aspetto sinestetico del testo; ci avvicina al parlato, ci dice qualcosa in più sulla logica che governa un determinato testo. Immaginatevi piccoli piccoli lungo una muraglia di parole, la punteggiatura rappresenta una schiera di affettuose pietre miliari, per giunta animate e carezzevoli.
Sul fronte riconoscibilità, la punteggiatura è un’altra delle firme dello scrittore. Con i ragazzi delle scuole abbiamo fatto più volte un esperimento: abbiamo dato loro un testo privato della punteggiatura e abbiamo chiesto di leggerlo e poi di mettere i segni di interpunzione che ritenevano più adatti. Beh, non abbiamo mai ottenuto due elaborati uguali.
Da Dante a Proust, fino ad Ammaniti, il suo libro è ricco di esempi che sovvertono le consuetudini in voga in ogni epoca. I sovversivi che ha amato di più.
Gli irregolari ma decisi: Leopardi, Manzoni, Gadda, Pavese, Tozzi, Joyce, Saramago, Faulkner, Beckett, Bernhard, Canetti, Malaparte, Banti, Campo, Consolo; tra i contemporanei Danielewski, Díaz, Énard, Volodine, McGowan, Zumas. Ma anche gli ultrapiani come Fenoglio, Hempel, Teulé, Carbé,
La punteggiatura cambia insieme alla lingua, si arricchisce? Si impoverisce? Quali sono i vizi della punteggiatura contemporanea.
Direi che vanno a braccetto. Siamo in una fase, spero transitoria, di impoverimento. A pagarne le spese è soprattutto la punteggiatura.
La lingua è bombardata da stimoli: ha la fortuna di introiettare parole ed espressioni dall’inglese e dai linguaggi settoriali. Ci fa a cazzotti, e qualcosa di significativo – acquisto, cicatrice o nulla – rimane; per la punteggiatura si procede al ribasso, verso la Grande Semplificazione. I vizi da condannare sono la pigrizia e l’avarizia, non so dire se sono da mandare all’inferno o al purgatorio.
Se fotografiamo dall’alto la scrittura attuale troviamo che è sostanzialmente segmentata da punti e da virgole. Li ho chiamati segni tuttofare, segni mangioni. Sono talmente facili da usare. Prendi il punto. Ci fai tutto. Come sto facendo io ora. Fico, no?
La punteggiatura può essere soggetta anche alle mode. La scrittura minima dei messaggi on line, per esempio, ha cambiato la musica delle pause?
Eh sì. Siccome la maggior parte delle cose che scriviamo – quando non sono le uniche – le scriviamo al cellulare, andando parecchio svelti e continuamente a capo, come possiamo non venirne influenzati strutturalmente? Chi studia queste cose parla di modifica significativa a livello neurosensoriale, nel brainframe. La messaggistica ci sottopone a un involontario allenamento alla brevità. Ma trattasi di brevità fasulla, semanticamente poco spendibile.
Salvo l’uso delle emoticon, che però io non uso: sono la punteggiatura e forse la scrittura del futuro: hanno la quarta dimensione. La quarta dimensione sarebbe la capacità di trasmettere emozioni. Mi auguro che tra qualche tempo le faccine disponibili siano così tante che, per pigrizia, tutti torneranno alla scrittura.
Uno dei tanti brani che riporta del suo libro è firmato da Marcel Proust ed è tratto dal volume Dalla parte di Swan, pp 7-8. Il testo contiene, in tremila battute, sei punti e virgola e solo un punto. Lei stesso commenta con queste parole: Provate a scrivere una frase così e chiameranno la polizia.. È impensabile leggere un testo così oggi?
È difficile, sempre più difficile. Non voglio essere catastrofista: abbiamo avuto e abbiamo ancora scrittori con la prosa rotonda e parecchio panciuta. Abbiamo scrittori ottovolante, scrittori labirinto, scrittori paracetamolo e scrittori stitichezza.
Chi sarebbero i nostri Proust, i nostri Bernhard? Moresco? Énard? Piperno? Marías? Rappresentano alcune tra le esperienze migliori degli ultimi anni ma non sento la forza necessaria di Proust.
L’aspetto basilare è sempre lo stesso: quanto siamo disposti ora a leggere testi come quelli di Proust? Quanti leggono Proust, Joyce (a parte Gente di Dublino), Berto? E quanto sono influenzati gli scrittori e l’industria culturale dallo scarso coraggio dei ricettori? Ma i ricettori hanno scarso coraggio perché non sono educati al bello. Come vede è un serpente avvoltolato su sé stesso.
Proust era un alieno anche al suo tempo, questo va detto.
Il nostro prossimo Proust potrebbe essere dietro l’angolo, cosa stiamo facendo per farlo venire allo scoperto?
Quello di Proust è un monumento al punto e virgola, Il signor punto e virgola come lo chiama lei. Che carattere ha questo signore antiquato?
Bizzoso, azzeccagarbuglioso, categorico, scostante, eclettico, bizzarro, malmostoso, spinoso, ma se impari a prenderlo per il verso giusto diventa affabile, accurato, pertinente, forbito, e indispensabile.
Manzoni e I promessi sposi. Lei scrive: “Il mio libro potrebbe concludersi qui, studiatevi la punteggiatura di Manzoni”. Quali sono le invenzioni del romanziere nazionale.
Innanzitutto ci ha mostrato che è uno scrittore di razza – altro che i piagnistei che sento a scuola: ha scritto e riscritto fino allo sfinimento. I risultati della sua fatica sono diventati modi di dire. Le versioni della sua opera tagliano l’Ottocento come le grandi guerre. Può vantare di aver insozzato l’Arno con le sue parole scartate.
In termini di punteggiatura Manzoni è un funambolo, in termini di scrittura un gigante.
Chi lo ha studiato a fondo arriva a concludere che il suo uso della punteggiatura è antinormativo, tutt’altro che regolare. Io invece penso che Manzoni ci dia una mirabile lezione di scrittura e di interpunzione. È un esempio di dogmatismo creativo. Tutti i segni sono usati con coraggio e un’adrenalinica voglia di oltrepassare la superficie pericolante delle regole. La sua è una logica interpuntoria sfumata e affascinante.
Gli antichi romani non punteggiavano e, della Divina Commedia, non sapremo mai come Dante abbia usato virgole e punti. Eppure, entrambi, sono studiati da sempre. Come dobbiamo leggere questi testi?
La verità è che con testi così belli la punteggiatura è del tutto invisibile. Alzi la mano chi è in grado di dire, così a memoria, quanti punti e virgola ci sono nell’Infinito di Leopardi, oppure com’è scritta la più famosa poesia di Quasimodo (ometto la punteggiatura e le andate a capo): «Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole ed è subito sera».
Torno al fuoco della domanda: come dobbiamo leggere i testi di cui non abbiamo la punteggiatura dell’autore?
Con lo stupore della prima volta e la consapevolezza delle letture successive, cercando di trarre un insegnamento. Non dovrei dirlo, ma ognuno di noi quando legge elabora una propria punteggiatura del testo che ha di fronte…