Antonio Casagrande non ha tutte le carte in regola per sopravvivere: gli orfani con un occhio solo che fanno una brutta fine, tra i cannoni dell’Italia da fare, non sono neppure una notizia in cronaca. Ma proprio in lui Alessandro Pavia vede l’aiuto che lo accompagnerà in giro per la Penisola a fotografare i Mille tornati alle proprie delusioni domestiche. Antonio ha un dono terribile e segreto con cui fare i conti. E una nuova vita a cui sopravvivere. Il nuovo romanzo di Raffaella Romagnolo, “Di luce propria” (Mondadori), tra Mazzini e i fatti di Milano.
Guardare, osservare e vedere sono tre cose molto diverse. Lo sa bene Antonio Casagrande: orfano, bambino difettoso a rischio di perdizione, adottato in extremis, promosso sul campo ad aiuto fotografo nel tempo avventuroso della nascita della dagherrotipia, e protagonista del nuovo romanzo di Raffaella Romagnolo, Di luce propria, pubblicato da Mondadori.
Ancora una volta, è un confronto tra mondi quello in cui la scrittrice sceglie di far giocare la partita dell’esistenza ai suoi personaggi.
Dove in Destino (il precedente romanzo, pubblicato da Rizzoli) la lacerazione è aperta dall’ampia superficie dell’Oceano – quello sul quale naviga la vita strappata di Giulia Masca, quasi un paradigma di innumerevoli esistenze rigettate dalla disperazione verso una terra di sconfinata incertezza – qui, in Di luce propria il divario (insieme geografico, linguistico, culturale) è tutto interno alla sismografia politica e sociale di una Italia raccontata a partire dagli anni della sua nascita.
Il secondo cinquantennio dell’Ottocento, dunque: tempo di sangue, ombre, povertà, eroismi, sogni e utopie. Una sorta di prequel sociale che, con mirata precisione, illumina contraddizioni e tormenti che caricano a molla il meccanismo distruttivo dell’abbandono, della violenza, del disastro, della guerra protagonisti del primo Novecento.
Non è però Di luce propria nel tempo della delusione (e del suo opposto: la resistenza).
La scelta di Raffaella Romagnolo per raccontare la storia di Antonio, del suo indomito padrone, Alessandro Pavia, della coraggiosa Caterina, dell’incredibile Madama Carmen è invece lì, in quel momento in cui gli ideali del Romanticismo hanno il loro ultimo sussulto prima di finire masticati dentro gli ingranaggi del Positivismo, in un’epoca di uomini che si mettono in mente di costruire non una vita, ma addirittura un paese, in quella confluenza che raccoglie tutta l’ardente speranza di una generazione e la annega – definitivamente – nel primo colpo di fucile sparato sulla folla inerme a firma del generale Bava Beccaris.
In questo tempo, mentre Antonio Casagrande si occupa di sopravvivere alle angherie di altri orfani come lui tra le mura della pia opera del Pammatone, Alessandro Pavia matura una idea, quella che decide sarà l’impresa della sua vita: andare a cercare uno per uno i Mille di Garibaldi e fotografarli, componendo un album che immagina imprescindibile, fondativo, necessario – al punto da decidere di bussare persino alla porta de Re.
Per questo Pavia strappa Antonio a macilenza certa, e lo vuole con lui a imparare il mestiere, a entrare nell’alchimia della luce e del buio.
Che Antonio sia cieco da un occhio non gli importa, ma forse è proprio quel difetto, che costringe il bambino ad affilare l’attenzione (e che rimanda, in eco, a una tradizione antica di anomalie portatrici insieme di mistero e di capacità compensatorie), ad attirare l’attenzione di Alessandro Pavia e a farlo decidere seduta stante.
È allora proprio la voce del bambino, e poi ragazzino, a raccontare la vita a due di quel rocambolesco pellegrinaggio alla ricerca delle camicie rosse: più la collezione di ritratti si va formando, più il bagno di realtà arriva a lambire l’orizzonte vitale del fotografo. Non la gloria, ma una amaro abbandono è quello che i garibaldini, tornati a casa, sperimentano nella loro povertà quotidiana.
Che ci sia un legame nell’immaginario dei due romanzi di Raffaella Romagnolo lo evidenzia proprio il momento in cui Alessandro Pavia incrocia la sua missione morale con la vita degli abitanti di Borgo di Dentro, protagonisti di Destino: ed è a Domenico Leone, che qui ritroviamo ancora prestante, che la scrittrice affida uno dei momenti più intensi di tutto il libro:
“La figura massiccia di Domenico Leone occupa tutto il vano. Pantaloni scuri, fascia in vita, sciabola al fianco, giubba rossa come il fazzoletto al collo.
Come una raffica di vento rovescia ogni cosa, di colpo nella corte cala il silenzio. Sarà che Domenico Leone è l’unico vestito di rosso in un mare di grigi, verdi e neri. Sarà che la divisa gli va ancora a pennello e lui dimostra di nuovo vent’anni. Sarà che di colpo tutto appare vicino, reale, concreto: l’imbarco, lo sbarco, la battaglia, il sangue, la morte. Luigina si alza in piedi. Alessandro Pavia abbassa la tromba. Uno dopo l’altro si alzano tutti. I bambini si guardano straniti. Antonio e Primo si fanno da parte. Mano sull’elsa, Domenico Leone si dirige alla pedana. Paolino ricomincia a tirare il vestito di Luigina ma lei non stacca gli occhi dalla camicia rossa. Ha impiegato una buona mezz’ora per stirarla con il ferro a brace. È contenta: il risultato è all’altezza del fremito che attraversa la corte”
Se Alessandro Pavia sa guardare, se sa osservare, quello che non gli riesce è invece vedere la misura di ciò che si va compiendo del suo sogno mazziniano. Non è certo uno disposto ad arrendersi: cambia piuttosto tavolo di partita.
Ma è proprio da questa irriducibilità che scaturisce la sua sconfitta.
Se c’è stata hybris, in lui, non è certo nell’avere spinto sempre la sua intelligenza in avanti; e neppure nell’aver osato immaginare un mondo diverso; nemmeno nella fame, l’insaziabile fame di futuro, che lo porta a ignorare spavaldamente la modestia della sua condizione per cedere volentieri a una vita che spesso non si può permettere.
Niente di tutto questo.
Se un peccato originale c’è, in questo visionario cervello di positivismo romantico, è quello di credere agli eroi – o, peggio, credere che il mondo possa serbare gratitudine agli eroi.
Ma la morte di Mazzini è, di fatto, la morte di un’epoca.
“Gente che aveva combattuto gli austriaci a Milano, i Borboni a Napoli, e il papa-re a Roma; gente che alle spalle aveva anni di adunanza segrete e fughe avventurose, di passaporti falsi, messaggi cifrati, pugnali al fianco e carcere e torture, dovette sentire come un botto, e un rovinare di macerie. “E adesso?” avranno pensato, senza dirselo, lo scialle bicolore che illuminava come un faro il giallo cera della carne morta. Impossibile distogliere lo sguardo, impossibile non sentire il morso della giovinezza perduta, il rotolare della vita che – bastarda, indifferente – correva più veloce del loro scomposto affannarsi”
Il lunghissimo commiato di Mazzini avviene via treno: cambiano le distanze, i tempi, gli ideali.
E Antonio Casagrande, oltre il suo maestro, cresciuto, porta nel suo sguardo quello che di speciale gli è stato passato dalla bizzarra educazione sentimentale di Alessandro Pavia: il suo compito è sopravvivere, e in questo, capisce, è diventato figlio dell’uomo che non gli ha dato esistenza, ma gli ha dato la vita.
È, ancora una volta, questione di saper vedere; che, in ultima analisi, è saper ricordare – dunque, discernere; dunque, immaginare. Così, anche se i dispositivi fotografici si evolvono, Antonio Casagrande, divenuto a sua volta fotografo, sa bene che il meccanismo non è tecnica, e la tecnica non è arte.
“Tutti quelli che potevano permettersi un arnese simile a quello che lui portava al collo si definivano “fotografi”. “Illusi” pensava allora. Che ne sapevano di come lavora la luce? Di quanto sia necessario blandirla e difficile catturarla? Né conoscevano il potere del Tempo e i mille chiaroscuri che la pazienza regala a chi sa aspettare. Ignari, si aggiravano pronti ad arraffare immagini come bambini ingordi. Un’abbuffata. Che fine avrebbe fatto lo stupore? L’incantesimo che spalanca gli occhi di meraviglia? Tutta la faccenda adesso si riduceva a un quarantesimo di secondo. Anche meno, con la corretta esposizione. Istantanee, si chiamavano, ed era un portento che solo chi aveva superato il lungo apprendistato del collodio umido poteva percepire”.
Così come in Destino sono le figure femminili a dettare lo sguardo delle azioni, è al contrario maschile il punto di vista prevalente in Di luce propria: come se uomini e donne sopravvivessero in modo diverso al tempo che li grava, e Raffaella Romagnolo ci volesse offrire delle possibili resistenze umane un ideale dittico.
Indimenticabile, in questa gara all’adattabilità, il personaggio di Madama Carmen, alias Lady Violet, alias Madama Amaranta, infine Rosa Bernard vedova Morel, ma in principio Rosetta la Vedova, nata Rosetta e basta.
Vitale come la Madama Rosa de La vita davanti a sé di Romain Gary, promulgatrice di un suo personale sistema morale, spiccia e imperscrutabile, concretamente determinata a sopravvivere e però sempre pronta a scivolare attraverso altri mondi, a lasciare parti di sé per rimanere sé.
Suo è il più raffinato esercizio di cambiamento dell’intero romanzo; forse per questo, pur essendo anagraficamente la più anziana, è proprio a lei che l’autrice ha affidato lo sguardo più contemporaneo e coraggioso.