Lo spettacolo, qui nella sua prima rappresentazione al Piccolo teatro di Milano, lascia riaffiorare tutta la forza del primo dirompente romanzo di Pasolini (edito da Garzanti nel 1955), rendendo un prezioso omaggio allo scrittore
Ragazzi di vita comincia con l’entrata in scena dell’attore Lino Guanciale che evoca con le parole l’arsura dell’estate Romana, tra la sterpaglia e la polvere dei cantieri, i ponti e la fanghiglia del fiume. É tutto raccontato, tutto al tempo passato (il tempo del racconto), come un ricordo… «Era una caldissima giornata di luglio».
Emanuele Trevi – che ha curato la drammaturgia dello spettacolo – rielabora la scrittura pasoliniana scegliendone i termini più estrosi ed eleganti, per rendere al meglio l’intelligenza febbrile dello scrittore e concentrarla in un omaggio fortemente sentito. Si riconosce molto bene Pasolini fra le parole scelte ed impastate dalla voce e della saliva degli attori – diretti da Massimo Popolizio – spinti ad un’intonazione faticosa e precisa, (meticolosa nello scandire le parole che si rincorrono con urgenza) sofferente – come è nella poesia di Pasolini e nella difficoltà stessa di scegliere le parole.
Il romanzo si scrive da sé – o forse meglio dire: si “riscrive” – sopra un palcoscenico immensamente spazioso, spoglio, senza fondale, né particolare scenografia: piatto, come un foglio. Anche i colori ed i toni di luce sono quelli della carta, con riflessi giallo chiari ed argentati. È il narratore (interpretato da Lino Guanciale) vestito di giacca e cravatta nere, come un inchiostro morbido e plastico, versatile, che va a ripassare la grafia, il segno indelebile lasciato da Pasolini nel descrivere e raccontare il suo tempo, o quello che ne sarebbe rimasto – a incidere le scene, scandendone i tempi ed i ritmi narrativi, ora intervenendo, ora lasciando che i personaggi prendano la parola, ora spostando un attrezzo o partecipando ad un “fuggi fuggi” con il Riccetto – personaggio feticcio del romanzo.
Colpisce infatti come alla sapienza espressiva di Pasolini, Popolizio e Trevi abbiamo saputo accostare la terza persona al dialogo diretto, affidando ai personaggi il loro stesso autoritratto, l’enunciazione dei gesti mentre li compiono, quasi che la letteratura sia una maschera da indossare o un mantello magico di cui bardarsi anche per correre la più banale delle avventure, come ad esempio andare a fare un bagno a Ostia.
Si procede a capitoli, in questa sorta di grande Libro Animato che è lo spettacolo, dove aleggia però un’aria cinematografica elegante e suggestiva: lo spostamento dei carrelli in scena, fluido e diretto, garantisce effetti ottici simili a quelli di lenti cinematografiche che ingrandiscono ed amplificano la profondità delle scene. Inoltre l’uso delle canzoni – recuperate da vinili polverosi – sopra cui i personaggi cantano, come in una specie di playback, crea un’atmosfera quasi da musical, un po’ retrò e straniante, cui è affidata l’incantamento teatrale e clownesco di un mondo misero, periferico, a sé stante, ma essenzialmente buono, ingenuo e pieno di vita – come esemplifica in maniera magistrale l’episodio del rondinino che affoga dentro al fiume, e che il Ricetto va a salvare dedicandogli una canzone di Claudio Villa: «quante rondini son tornate a primavera, quanti palpiti e cinguettii nel sol» (Malinconia di rondine).
O ancora, sempre per quel gusto magico che è proprio dell’immagine cinematografica o del bozzetto illustrativo, ecco apparire a noi Nadia (Roberta Crivelli), bella ed “esagerata” come in una proiezione felliniana – sedere e seno ingrossati da cuscini sotto il costume – nell’episodio del bagno ad Ostia con in sottofondo “Il Mare” di Claudio Villa. Bellissima scena, piena di Teatro, di gioco, di eros… Quell’eros che come era proprio della scrittura e dell’immaginazione pasoliniana, è proprio del Teatro, dei suoi costumi, delle sue evoluzioni parenti del Circo e dello spettacolo di Varietà, così come nella vita.
L’urgenza di raccontare i ragazzi, quei loro corpi tonici, muscolosi, vibranti di tensioni e sudore… quei corpi pieni di vita, scattanti, elastici, spinti dalla fame, dalla noia. Corpi disperati dei giovani che vivevano un periodo disorientato, dove la guerra è un ricordo che andrà esaurendosi nel tempo, e l’Italia vive un periodo di riassestamento. Un’energia vitale e potentissima, che continua ad esaurirsi nel nulla, in un esercizio inutile, cui non segue niente se non il fatto che sia avvenuto qualcosa, che si sia vissuto qualcosa ed in qualche modo: il tempo che scorre e che invecchia. Non c’è un progetto, non c’è una direzione, tutto è miseria e dramma per questi ragazzi, allora come oggi.
I Ragazzi di Vita ci sono ancora, ci saranno sempre, e sono affezionati al loro narratore, al loro Pasolini, che aveva saputo comprenderli ed in parte prevedere il senso di disgrazia che avvertivano sui loro corpi, il loro essere infelici, profondamente soli. Che colpa ne hanno, che colpa potranno mai averne? Però lì, in quelle periferie (che oramai si tentano di mascherare e di inglobare nelle nostre città) c’era qualcosa, forse un senso di bellezza smarrito, che ha ceduto alla tristezza del progresso, del mito dello sviluppo. Gli occhi dei ragazzi di vita brillano e si stupiscono, e piangono e non comprendono, non capiscono…
Verso la fine dello spettacolo due addette alle pulizie compongono il quadro de “il Glossario” – voluto da Pasolini a termine del suo libro. Una scena irreale ma dirompente per il suo senso di attualità, dove si svolge un esercizio di traduzione dall’italiano ai termini dialettali. A tradurre con eccezionale perizia è una ragazza straniera, di origine slava.
Immagine di copertina © Achille Le Pera