Con Rainier Fog gli Alice in Chains ripartono dalle origini, ma senza accenti nostalgici
Il 22 agosto del 1967 nasceva Layne Staley, uno dei talenti allo stesso tempo più cristallini e oscuri della musica. Gli sono bastati tre dischi e due EP con gli Alice in Chains per occupare un posto eterno accanto ai grandissimi del rock. Poi, dopo il terzo disco del 1995, un lungo esilio autoinflitto, e una spirale lenta e inesorabile verso il baratro della dipendenza dall’eroina, fino a quando la luce si è spenta del tutto, il 5 aprile 2002.
24 agosto 2018: 51 anni e due giorni dopo, e soprattutto 16 anni dopo la sua prematura scomparsa, esce Rainier Fog, sesto disco degli Alice in Chains, il terzo senza il loro frontman originale, prodotto da Nick Raskulinecz per la casa discografica BMG.
L’importanza immensa del disco trascende le canzoni che contiene. Rainier Fog infatti segna il ritorno degli AIC alla loro città natale, Seattle, in cui la band ha mosso i primi passi lanciando l’onda grunge che ha stravolto gli anni 80 e 90 insieme a Soundgarden, Pearl Jam, Mudhoney, Screaming Trees, Mother Love Bone. La città – e lo studio di registrazione Studio X – in cui Jerry Cantrell & co hanno registrato proprio il disco del 1995 che prende il nome della band, l’ultimo con Layne.
Da quel disco sono passati 23 anni, e accanto a Jerry Cantrell, Mike Inez e Sean Kinney c’è il 50enne William DuVall. Il musicista, al suo terzo album con gli Alice in Chains, “pareggia” così il numero di incisioni con Layne e in un certo senso guadagna a pieno titolo, dopo 12 anni di militanza silenziosa, il suo posto accanto a Cantrell al microfono.
Riunitisi nel 2006 con la nuova lineup, gli Alice in Chains versione 2.0 sono diversi dalla versione originale, e non solo per il diverso timbro vocale tra DuVall e Staley. C’è una maturità nuova nella band, segnata dalla scomparsa di un amico, prima ancora che di un vocalist – a cui si aggiunge la morte per overdose di Mike Starr, bassista originale della band. Cambia il ventaglio di tematiche nei testi, e c’è una differente polarità nella band.
Rainier Fog conferma l’impressione di Black Gives Way To Blue e The Devil Put Dinosaurs Here che l’avevano preceduto: il vero sostituto di Layne Staley è Jerry Cantrell, che a tutti gli effetti in molti pezzi ricopre il ruolo di lead singer, con DuVall a costruire le armonie caratteristiche della band fin dagli inizi. The One You Know, il primo singolo che ha anticipato l’album lo scorso maggio, ne è un chiaro esempio: Cantrell canta le strofe, e DuVall si inserisce solo per dare corpo ad un ritornello d’impatto che testimonia come la band sappia ancora scrivere grandi pezzi.
Come per i due album citati, accanto a brani più puramente grunge come la “terzinata” Drone e l’immensa Red Giant, trovano spazio non solo pezzi più commerciali, come So Far Under (in cui DuVall si prende il meritato ruolo di prima chitarra con un buon solo) o Never Fade, rispettivamente secondo e terzo singolo, oltre a brani più “puliti” come Fly e Maybe. Due menzioni d’onore vanno sicuramente a Never Fade e alla title track Rainier Fog. La prima è una canzone scritta a quattro mani da Cantrell e DuVall: il primo ha scritto la musica, ma non riusciva a trovare un testo adatto, cosa che invece ha fatto, e alla grande, il secondo, chiudendosi fino a notte fonda nello Studio X, finché ispirato dal tema della perdita – della nonna a cui era molto legato, dell’amico dell’amico Chris Cornell, e ovviamente di Layne – ha partorito le parole perfette per uno dei pezzi migliori del disco.
Rainier Fog ha un importanza simbolica non indifferente. Il brano che dà titolo all’album prende il nome da due elementi tipici di Seattle: la sua nebbia caratteristica e il monte Rainier, che si staglia a pochi km dalla città. Il pezzo è infatti un inno all’intera scena musicale che da Seattle ha conquistato il mondo intero, trasportando con le note quell’atmosfera unica che ha dato vita a uno dei movimenti più caratteristici del panorama rock contemporaneo.
In conclusione, Rainier Fog è decisamente in linea con la seconda discografia degli Alice in Chains: nessun vero exploit, ma una qualità comunque altissima, benché priva di quell’impronta caratteristica che solo Layne poteva dare alla band. Un prodotto più vicino a Degradation Trip e alla discografia solista di Cantrell che a Dirt o Facelift. Eppure un disco godibilissimo, e non potrebbe essere altrimenti. Non è nostalgia, e non è campanilismo: Cantrell e DuVall sanno fare musica, e a 30 anni dall’esordio della band siamo fortunati di poter ancora sentire nuovi pezzi scritti da loro. E non è affatto scontato.
Alice in Chains, Rainier Fog (BMG)