Alla Scala il “Die Entführung aus dem Serail” del genio salisburghese con la regia epocale di Giorgio Strehler e la direzione di Zubin Mehta. Qualcosa di più di un omaggio. Il direttore d’orchestra indiano ben reinterpreta lo spettacolo con la complicità dei suoi attacchi, dei tempi misurati, delle tinte contemplative, spiritose, piene di dolcezza
Il migliore dei mondi possibili è senz’altro musicale. E forse settecentesco, magari mozartiano, come nel Ratto dal serraglio, romantica favola orientale in cui il gioco dei potenti, per una volta, è magnanimo e lungimirante. L’opera che dà inizio alla maturità di Mozart, il primo capolavoro, quello con «troppe note», capostipite di un’opera nazionale tedesca che si intrufolerà nell’Ottocento attraverso Il flauto magico, Beethoven e Weber. Il marchio è il Singspiel, lavoro in equilibrio tra prosa e musica, con passaggi dialogati tra un’aria e l’altra. E ci sono il divertimento, la leggerezza, l’amore, le turcherie come in ogni buon vaudeville, solo con la grazia leggera, la vivace inventiva del Mozart dei primi miracolosi anni di Vienna.
Ma il migliore dei mondi possibili, alla Scala, sembra essere anche strehleriano, grazie alla magnifica ripresa curata da Mattia Testi di Die Entführung aus dem Serail nella versione di Giorgio Strehler, che alla Scala non si vedeva dal 1994. Nel frattempo il regista è scomparso, la notte di Natale di vent’anni fa, durante le prove del Così fan tutte che poche settimane dopo avrebbe inaugurato il nuovo Piccolo di largo Greppi, poi a lui intitolato (come Ferrando lo sconosciuto Jonas Kaufmann).
Coincidenza vuole che il 2017 sia anche il settantesimo anniversario della prima regia di Strehler alla Scala: una Traviata che precedette di due mesi L’albergo dei poveri di Gor’kij con cui aprì il Piccolo Teatro. Ma la sua missione teatrale all’opera sarebbe culminata con i successi travolgenti di Simon Boccanegra, Macbeth e Lohengrin insieme a Claudio Abbado, il Falstaff lombardo con Lorin Maazel, Le nozze di Figaro e Don Giovanni con Riccardo Muti.
E forse qualcuno si stupirebbe nel ricordare che alcuni di questi spettacoli di repertorio, entrati nel codice genetico del pubblico della Scala, non sono nati a Milano. Come le Nozze, apparse con il titolo tradotto, Les noces de Figaro, in scena a Versailles nel teatrino di corte prima di arrivare alla Scala nel 1981 con Muti. Quanto a questo Die Entführung aus dem Serail, si tratta di una produzione andata in scena per la prima volta a Salisburgo. Era il 1965 e sul podio c’era Zubin Mehta, allora come oggi.
Colpo di genio è la drammaturgia di luci e ombre con cui Strehler impostò lo spettacolo. L’azione parlata è illuminata, condotta nel solco della commedia dell’arte con spirito goldoniano: le stesse pause, ripetizioni, corone non più solo musicali ma teatrali, arricchite di equivoci e incanti di valigie, bauli e scale che ancora si ritrovano nello storico Arlecchino del Piccolo – non a caso nel 1972 il servo muto era Ferruccio Soleri. Ma appena un personaggio attacca un’aria avanza in proscenio, supera il boccascena disegnato da Luciano Damiani per diventare un’astratta silhouette contro il fondale azzurro.
Perché la soglia dello spettacolo svela e nasconde al tempo stesso: verità e finzione si danno il cambio in questo chiostro ottomano in cui i giochi di luce dialogano con la musica. A volte accompagnano gli affetti, li sottolineano, li chiarificano, altre li confondono, li imbrogliano, o meglio imbrogliano il pubblico, concedendo al più i contorni scuri di un’azione sospesa, fatta della materia di cui è fatto il canto. Così la regia di Strehler non solo accentua la distillazione del libretto, come già la partitura di Mozart, ma rende alla musica un servizio, la accompagna sul palco dalla buca.
E il discorso musicale non potrebbe essere più adatto allo spettacolo della versione di Mehta – anche interpellato: «Prego maestro» gli fa Osmin, il simpatico Tobias Kehrer – per la complicità dei suoi attacchi, dei tempi misurati, delle tinte contemplative, spiritose, piene di dolcezza con cui l’orchestra lo segue. Nel finale il direttore viene come raddoppiato in scena dal Pascià, che resta voltato per tutto il quartetto conclusivo, mentre osserva i suoi ospiti riprendere corporeità e ripartire via mare, mai più come ombre cinesi. Ottimo quintetto di cantanti – il Pascià Selim è la voce recitante di Cornelius Obonya –, su cui svettano le voci femminili di Sabine Devieilhe e soprattutto di Lenneke Ruiten, le cui agilità in Martern aller Arten sono sorprendenti per qualità e sicurezza degli acuti.
Foto: Brescia/Amisano © Teatro alla Scala