Non è difficile andare sull’”isola che non c’è”, tutti sanno che bisogna seguire la seconda stella a destra e poi continuare dritto fino al mattino.…
Non è difficile andare sull’”isola che non c’è”, tutti sanno che bisogna seguire la seconda stella a destra e poi continuare dritto fino al mattino. Ma anche la “mostra che non c’è” è facilmente raggiungibile: basta andare a Villa Necchi Campiglio; e non serve neppure un pensiero felice, è sufficiente il biglietto del tram. La mostra Alfredo Ravasco. Principe degli orafi, curata da Paola Venturelli, stupisce per minimalismo: è un’esposizione vera e propria, nel senso che gli oggetti sono semplicemente esposti.
Le opere, più di cento (ma non bisogna lasciarsi ingannare dal numero, data la minuteria se ne possono trovare una ventina disposti lungo un metro), si nascondono perfettamente negli ambienti della villa progettata da Pietro Portaluppi. E ciò può essere anche un pregio, un esempio di riuscitissima integrazione tra le opere d’arte e il luogo che le ospita, tanto che uno dei pezzi più belli in mostra, il centrotavola della sala da pranzo, fa parte della collezione permanente. Si può anche pensare che ciò sia il frutto di una scelta espositiva consapevole, consona al dogma dell’arte per l’arte, di cui Ravasco era certamente un follower. Ma risulta ugualmente eccessivo, soprattutto per un genere poco frequentato come l’oreficeria. Nessun testo, nessuna didascalia. Gli unici indizi che permettono di riconoscere i lavori del maestro sono le teche trasparenti che li contengono e i dadi numerati che li accompagnano. L’arte per l’arte a ogni costo? E sia. Perlomeno è di qualità.
Alfredo Ravasco (1873-1958) è figlio d’arte, apprende infatti i primi rudimenti del mestiere nella bottega paterna, per poi perfezionarsi alla scuola del cesellatore Eugenio Bellosio. Titolare di una propria ditta, fondata nel 1922, partecipa alle più importanti esposizioni d’arte decorativa del periodo, anche fuori dai confini nazionali. Ma è soprattutto a Milano e Monza che fa la parte del leone, a cominciare dall’Esposizione del Sempione del 1906 e arrivando fino alla VII Triennale del 1940. Il suo approccio all’oreficeria è assolutamente democratico: che si tratti di giade, avori, coralli, argenti, ori, zaffiri, lapislazzuli, o ancora agate, malachite, cristalli, ceramiche smaltate e chi più ne a più ne metta, tutto concorre alla riuscita estetica dell’opera, che deve essere un tripudio di colori e di superfici, governato però da una composizione rigorosa. Gerarchica perfino. Come accade in quei trittici che ricordano i podi di qualche manifestazione ginnica della gioventù fascista.
In mostra si trovano oggetti di ogni tipo, dalle vaschette ai pettini, dai portaprofumi ai posaceneri, passando per calici e ostensori. Molti appartengono a istituzioni milanesi: religiose, come l’Ambrosiana, che si presenta con il reliquiario contenente i ciuffi di Federico Borromeo, o laiche, come la peccaminosa Coppetta con serpentello del Museo della Scienza e della Tecnologia. La sensazione, anche piuttosto divertente, è quella di essere dei sub alla ricerca di un tesoro celato tra i marmi di Portaluppi, che diventano all’occasione un fondale marino per le razze, i pesci e i polipi di Ravasco.