Visto all’Auditorium Parco della Musica di Roma, “Re Ruggero” capolavoro di Karol Szymanowski è diretto con coraggio dal direttore britannico che attraversa sontuosamente il mistico decadentismo di quest’opera arabo-moresca
«Il mio dio è bello come me» annuncia il profeta. Basta questo a conquistare Ruggero, re di Sicilia del dodicesimo secolo in mistico e fisico turbamento dopo l’incontro con un pastore dal fascino dionisiaco, che di Dioniso rivelerà molti altri aspetti seducenti nel corso del Król Roger di Karol Szymanowski. In italiano è Re Ruggero, capolavoro del compositore polacco, secondo in patria solo a Chopin e tra i sostenitori nell’Europa di cent’anni fa dell’opera alla vecchia maniera.
Un escluso, omosessuale, nato in Ucraina e vissuto ai margini geografici delle avanguardie europee di inizio novecento finché la tubercolosi ossea non l’ha ucciso a cinquantaquattro anni. È Antonio Pappano a sostenere la sua musica, in particolare questo titolo magnificamente diretto pochi giorni fa a Roma in forma di concerto, coraggiosa inaugurazione della stagione di Santa Cecilia.
Andato in scena per la prima volta a Varsavia nel 1926, non bastarono gli autorevoli apprezzamenti di Pannain, Gavazzeni e altri illustri musicologi per aumentarne il numero di produzioni in Italia. Se ne contano due in forma scenica, entrambe a Palermo, che giustamente rivendica l’ambientazione dell’opera: nel 1949 con Renato Guttuso per scene e costumi, questi ultimi riutilizzati anche in un’edizione del 1992. Pochi anni di attesa e vedremo Re Ruggero anche alla Scala, nel 2021, sempre con Pappano che l’ha già diretto a Londra con regia di Kasper Holten.
La partitura di Szymanowski non si limita a una densità tardoromantica alla Strauss, ma è continuamente attenuata da sospiri tutti in prestito dall’impressionismo francese, da passaggi edonistici sublimati in raffinate simbologie. Con l’azione praticamente assente, il torbido percorso del protagonista è soprattutto musicale: inizio tra le tenebre solenni e bizantine della Cappella Palatina di Palermo e risoluzione in un pagano, trasfigurato inno al sole.
È proprio Ruggero a cantare gli ultimi versi, forse ormai convertito, di certo un po’ rasserenato dal do maggiore finale, dopo che moglie e sudditi lo hanno abbandonato per unirsi al “buon”, o meglio “bel pastore” tra le rovine di un teatro greco siciliano. Potrebbe essere Segesta, o uno dei siti che tanto affascinarono Szymanowski nel suo viaggio in Italia: quella discesa verso il Mediterraneo – e oltre, in Nord Africa, come l’immoralista Gide – capace di contaminare una poetica post-wagneriana di profumi moreschi e calme, sensuali atmosfere del Sud.
Il riferimento euripideo del libretto, Le Baccanti, si condensa nel conflitto esplicito del protagonista, che all’inizio dell’opera sembra conoscere solo un lato di una natura umana divisa tra razionalità e impulso erotico. Ragione e sentimento, logica e mistica: dualismi ed emanazioni nel senso di Nietzsche degli spiriti di Apollo e Dioniso, che atto dopo atto aggravano i turbamenti del confuso Ruggero, fatalmente attratto dalle promesse del pastore di spezzare le catene costrittive di tutti i Super-io del regno. Praticamente Teorema di Pasolini, come notò Arbasino.
Pappano attraversa sontuosamente il mistico decadentismo di quest’opera arabo-normanna: nelle scene corali, negli scatti più fastosi, come nelle intense convulsioni del terzo atto, il risultato è inebriante. Nei passaggi più preziosi, quando il volume smette di contare e la partitura si richiude in un microcosmo di dettagli, Pappano sembra muoversi sensorialmente, non razionalmente, dando l’impressione di seguire più i colori e le suggestioni timbriche che le geometrie di Szymanowski. Forse un po’ confusivo, senz’altro di grande fascino.
Ottima scelta di cast: Lukasz Golinski, che anche in forma di concerto spiega nel canto l’agitato percorso interiore di Ruggero; la regina Rossana di Lauren Fagan, così precisa nei suoi erotici disegni orientaleggianti; Edgaras Montvidas autorevole profeta forse dalla linea più apollinea che dionisiaca. Infine Marco Spotti come Arcivescovo, Helena Rasker come Diaconissa e soprattutto Kurt Azescberger nel ruolo chiave del confidente Edrisi. Più impreciso il contributo di MASBEDO, vale a dire Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni, videoartisti milanesi a cui è stato affidato l’accompagnamento visivo dell’opera, con proiezioni in presa diretta che suggeriscono bene la contaminazione, ma che a volte si perdono in un simbolismo un po’ didascalico.
Fotografia: Musacchio & Ianniello