Un’intelligente esposizione alla Fondazione Prada indaga ciò che normalmente non si vede: il retro dei dipinti.
Recto Verso, nuova mostra meneghina concepita dal Thought Council della Fondazione Prada, tratta della rappresentazione consapevole del retro del quadro, tema affrontato attraverso un nucleo di opere della Collezione Prada poi ampliato tramite dei prestiti. La tradizione artistica ed espositiva occidentale ha infatti privilegiato il lato frontale dei dipinti: nonostante vi siano stati episodi culturali di funzionale valorizzazione dei due lati di un’opera pittorica (i polittici medievali o le ante d’organo, ad esempio), questa rimane per lo più ancorata alla fruizione frontale, quindi alla sua bidimensionalità. Allora, quando un artista decide di mostrarci cavalletto, telaio o tela priva di preparazione siamo di fronte a un invito alla riflessione sulla pittura stessa, a un movimento autoreferenziale che è stato storicamente articolato secondo diverse modalità.
Sfruttando come punto di partenza il trompe l’œil di Louis-Léopold Boilly, pittore francese del XIX secolo che ci mostra il mondo (un gattino, un ceppo di legno, dei pesci) dietro a un telaio sfondato, la mostra offre un campionario di variazioni sul tema. Le raffigurazioni del telaio costituiscono un ribaltamento concettuale, l’emersione del retro del quadro come immagine ricca di informazioni storico-artistiche, possibilmente anche bella. Significativo è vedere la parte posteriore di un dipinto con Ninfee di Monet, fotografata da Philippe Gronon. Questa reca un coacervo di adesivi e bigliettini delle ditte di trasporto che, di volta in volta, hanno portato quest’opera in diverse esposizioni. Organizzati concentricamente attorno a un ottagono, i biglietti si richiamano per forme e colori, assumendo significati estetici ed equilibrio precario. Appartiene a questa tipologia anche Stretcher frame with vertical bar di Roy Liechtenstein: dopo tanta censura, anche il retro di un quadro può diventare pop.
Altra via è quella della trasparenza: così Carla Accardi (1924-2014) decide di far sparire in toto l’immagine, il meccanismo della finzione, sostituendo la tela del quadro con della plastica. Si tratta di un escamotage visivo che senza capovolgere il dipinto (che letteralmente dipinto più non è) ci mostra non solo il telaio che ne è il supporto, ma anche il muro sul quale è appeso. Ne consegue che l’opera è un dispositivo aperto: in base a dove la si colloca, essa cambierà le proprie caratteristiche. Tale filosofia è seguita anche dalle opere dei francesi Daniel Dezeuze (1942)e Pierre Buraglio (1939), legati al movimento anni Sessanta “Supports/Surfaces”, ed è vicina anche alle due Plastiche di Burri: il loro significato pittorico è affidato alle bruciature inflitte al materiale extrapittorico, ma le opere esposte al centro dello spazio (scelta espositiva vincente) annullano la distinzione fra recto e verso, guadagnando un valore tridimensionale e scultoreo.
Una menzione speciale va all’opera di Gastone Novelli (1925-1968) Lutte, échech, nouvelle lutte, che ha come sfondo le contestazioni della Biennale di Venezia del 1968. Vista l’occupazione dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e le montanti polemiche sull’imminente apertura dell’esposizione, ai Giardini della Biennale fu posizionato un cordone di polizia che ne preservasse la sicurezza. Il giorno dell’inaugurazione gli artisti manifestarono il loro dissenso su questa misura restrittiva e sull’inadeguato statuto fascista della Biennale (retaggio del passato ancora vigente) chiudendo i padiglioni, oscurando le opere o posizionandole a terra; ai cancelli e presso altri musei veneziani si verificarono sommosse, mentre sul pennone di piazza San Marco fu issata dai manifestanti una bandiera rossa. Si trattò di un episodio fondamentale della kermesse lagunare, e non solo. Novelli, che aveva a disposizione un’intera sala, decise di voltare le sue opere e di scrivere sul retro di un esemplare (oggi della Collezione Prada) lo statement “La Biennale è fascista”; l’artista sarebbe prematuramente morto qualche mese dopo. Storia di un’opera rivoltata e risignificata, di un manifesto politico e di vita.
Purtroppo la mostra non è esente da difetti, soprattutto organizzativi. Le informazioni fornite allo spettatore sono affidate a uno striminzito riassunto del comunicato stampa, senza che si accenni più profondamente alle singole opere; su di queste, il gentilissimo personale di sala non sembra essere stato formato a sufficienza, sicché le curiosità specifiche degli spettatori restano insoddisfatte. Inoltre appendere le targhette sullo spessore dei muri, e non accanto alle opere, può essere utile a non disturbare la sobrietà dell’allestimento e la purezza della fruizione, però genera confusione. Insomma, sappiamo che Fondazione Prada ha come missione la sperimentazione e non la didattica, ma la profondità di un’esposizione si costruisce anche — come ci hanno dimostrato in passato — venendo incontro al pubblico.
Recto Verso, Fondazione Prada, fino al 14 febbraio.
Immagine di copertina: Roy Lichtenstein, Stretcher frame with vertical bar, 1968. Foto Delfino Sisto Legnani Studio. Courtesy Fondazione Prada.
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