Operaio della pittura, all’opposto dei maudit come stile di vita e sguardo sul mondo: è il grande impressionista eccezionalmente raccontato da quel grande regista che fu suo figlio
“Il lettore: Questo che lei ci presenta non è Renoir, ma il ‘suo’ Renoir. L’autore: D’accordo. La storia è qualcosa di essenzialmente soggettivo”.
Questo l’incipit della biografia che Jean Renoir, il regista de La grande illusione (1937), de La regola del gioco ( 1939), tra i suoi tanti magnifici film, scrive sul padre Pierre-Auguste, il pittore impressionista.
Il libro esce per la prima volta nel 1962 per la Librairie Hachette e viene pubblicato in Italia da Garzanti e non viene più ristampato fino al dicembre 2015 quando esce nuovamente da Adelphi.
Il testo ha un’elaborazione lunghissima. La prima idea nasce quando Jean viene ferito durante la Prima Guerra Mondiale. ‘Nell’aprile del 1915, un bravo tiratore bavarese mi regalò una pallottola in una gamba. Gliene sono riconoscente’.
Quella ferita gli permette di tornare a Parigi e di stare finalmente con il padre da uomo a uomo, non più da bambino. Forse quel che li avvicina è che sono tutti e due azzoppati, lui per la ferita, il padre per la tremenda artrite che l’ha tutto rattrappito.
Jean se ne sta seduto sulla poltrona di velluto rosa della madre, che è morta da poco, e guarda il padre sulla sua sedia a rotelle, che dipinge tutto il giorno, infaticabile nonostante la malattia. Intorno, tutto un giro di donne: c’è la gran-Louise, la cuoca, la figlia coi nipotini, c’è l’incantevole Andrée, l’ultima modella che diventerà moglie del regista, c’è la portinaia, la fioraia, tutte in adorazione del maestro, che non si dà nessun aria, è gentile, ma riservato, tutto preso dal suo lavoro.
Solo dopo cena, quando non c’è più luce e non può più dipingere, parla. Odia la guerra e si fa raccontare dal figlio soprattutto quegli episodi ‘che mettevano in risalto il lato grottesco di quella tragica faccenda’, in cambio comincia a raccontare della sua infanzia, della famiglia, di quel mondo e di quei valori che sono scomparsi, dei suoi amici, di quel che gli sembra giusto e di quel che gli sembra sbagliato; insieme alla sua vita vediamo la Storia, i grandi mutamenti e come questi abbiano inciso sulle nostre piccole vite.
E poi, naturalmente, con pudore, con modestia, com’è nel suo carattere, Renoir parla di pittura, di quella dei grandi del passato, degli odiosi accademici che l’hanno tanto avversato, dei suoi amici Impressionisti, e “parlava di sè come di un operaio della pittura… Diffidava anche dell’immaginazione; la considerava una forma di orgoglio. ‘Ci vuole una bella dose di vanità per credere che quel che esce dal nostro cervello sia migliore di quel che vediamo intorno a noi. Con l’immaginazione non si va molto lontano, mentre il mondo è così vasto. Si può camminare per una vita intera senza mai vederne la fine'”.
Ricorda, ridendo, della pretesa del nonno, che era stato adottato da uno zoccolaio, di essere il figlio naturale di un nobile:“Quando penso che avrei potuto nascere da una famiglia di intellettuali! Mi ci sarebbero voluti anni per sbarazzarmi di tutte le loro idee e per vedere le cose come stanno, e, forse, non avrei saputo servirmi delle mani”.
Comincia da bambino a lavorare come decoratore di ceramiche a imitazione di Sèvres e di Limoges; è bravo e veloce, già ha un tocco delicato, leggero nelle scene di genere, nei visi delle fanciulle: sono già dei Renoir. Lavora con scrupolo, guadagna bene, vuole aiutare la famiglia e vuol far bene. Dopo una decina di anni passa alla decorazione di pareti, dei bistrot, dei ristoranti, delle sale di qualche ricco mercante. Ha sempre un foglio in mano e disegna continuamente per non perdere la mano, ma non osa fare il gran passo, diventare un pittore.
Finalmente, spinto dall’ammirazione dei suoi clienti, prende i primi colori. Gli esordi sono difficilissimi: i committenti pretendono una pittura accademica, che lui trova ridicola. Fa la fame, ma non demorde. Anche il famoso esordio nel 1864 al Salon de Refusés di Nadar è un disastro di critica e di vendite.
Renoir è il contrario del maudit, tutto genio e sregolatezza, ha una vita serena, una famiglia che adora, tiene ordinato il suo studio, la tavolozza è sempre ripulita, i colori sono stesi in piccole macchie separate, è circondato da amici. Ai deliziosi pranzi della moglie Aline partecipano tutti, senza snobismi, senza distinzioni di classi sociali, dal barone al calzolaio, purché siano persone sincere, allegre.
Accanto al racconto di questa vita affettuosa, appartata, il figlio Jean fa sfilare i grandi avvenimenti del secolo, la Comune di Parigi, la presa del potere di una borghesia arrogante, cafona, presa dal solo desiderio di guadagno, cui in qualche modo ci si deve adeguare, se si vuol campare.
Renoir ha la fortuna di avere qualche appassionato collezionista, poi finalmente arrivano i grandi mercanti, che certo considerano i quadri un investimento, ma sono anche competenti, ci guadagnano ma lo fanno guadagnare e soprattutto lo liberano dalla noiosa perdita di tempo di procurarsi dei clienti. A lui interessa solo lavorare; quando, quasi paralizzato dall’artrosi, trova un medico che con una severa disciplina riesce a farlo camminare dice:
“Rinuncio. Questo prende tutta la mia volontà e non me ne resterebbe più per dipingere. Tutto sommato, e strizzò l’occhio maliziosamente se devo scegliere tra camminare e dipingere, preferisco ancora dipingere”. Si mise a sedere e non si rialzò mai più.