Resistere a Teheran, nel giardino dove si vive, si ama e si muore

In Cinema

La bella casa dove vive la 70enne vedova Mahin è un perfetto rifugio per fronteggiare la solitudine e la cupa atmosfera che si respira oltre il muro di cinta. Nel regime autoritario degli ayatollah che soffoca l’Iran di oggi. Accanto a lei trova il suo posto il gentile tassista Faramarz, ricordando i vecchi tempi di un paese e una città diversi. Il film è stato proiettato alla Berlinale ma i registi Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha non c’erano, bloccati dal governo che aveva sequestrato i loro passaporti

Mahin (Lili Farhadpour) ha settant’anni, è vedova da trent’anni e da molto tempo vive completamente sola nella sua grande casa in un quartiere periferico di Teheran. Una condizione di solitudine a cui sembra malinconicamente rassegnata, tra una stentata telefonata con la figlia che vive all’estero e le sempre più rare occasioni di incontro con le amiche. Amiche che fra l’altro sembrano capaci quasi solo di parlare di visite mediche e malattie più o meno gravi, più o meno immaginarie. Anche fuori, al di là del muro che delimita il bellissimo giardino che circonda la casa, l’atmosfera non è certo più allegra. La vita scorre lenta nella capitale dell’Iran; e, mentre gli anziani si lamentano delle pensioni e del costo della vita sempre più alto, i giovani devono nascondersi anche solo per tenersi per mano, e basta anche solo una ciocca di capelli sfuggita all’hijab per rischiare una severa reprimenda da parte della polizia morale.

Una cappa di piombo che opprime uomini e donne e rende l’aria irrespirabile. E allora l’unico modo per cercare di sopravvivere è ritirarsi dentro le proprie case e trovare qualcuno con cui condividere sogni e desideri, una manciata di canzoni, qualche passo di danza, una fetta della propria torta preferita, un bicchiere di (proibitissimo) vino. È quello che Mahin pensa di aver trovato nel gentile tassista Faramarz (Esmaeel Mehrabi), anche lui tutt’altro che giovane ma pieno di entusiasmo e capace di dolcezza. Con lui vorrebbe ricominciare a sognare quella libertà che in Iran ormai sono rimasti solo i settantenni a ricordare, ripensando alla loro giovinezza in una Teheran ben diversa da quella di oggi.

Sui giornali italiani è apparsa una bellissima foto di Maryam Moghaddam con i lunghi capelli rosa e lo sguardo fiero di una donna che non si arrende, anche se alla regista e al marito Behtash Sanaeeha, che con lei firma questo Il mio giardino persiano, il regime iraniano ha ritirato i passaporti, impedendogli di uscire dal Paese e di andare a Berlino l’anno scorso in occasione della proiezione del film, in concorso. Il titolo internazionale con cui è stato presentato alla Berlinale, My Favourite Cake, è molto preciso e calzante, ma di certo non è sbagliata la scelta del titolo italiano, perché il giardino al centro dell’intero film, dove si nasce e si vive, si ama e si muore, è esattamente un’immagine dell’Iran intero, chiuso tra mura invalicabili, torturato e soffocato, eppure ancora e sempre vivo, capace di resistere, lottare e sognare. E questo piccolo film struggente, delicato e terribile, proprio questo ci insegna a fare: resistere.

Il mio giardino persiano di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, con Lili Farhadpour, Esmaeel Mehrabi, Mohammad Heidari, Mansoore Ilkhani

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