Non solo artista ma intellettuale a tutto tondo, il compositore milanese rielaborando la “tecnica dei dodici suoni” ideò una poetica musicale che andava oltre scuole e convenzioni
C’è stato un momento nel corso del nostro Novecento, secolo niente affatto “breve” dal punto di vista musicale, in cui l’avanguardia era soprattutto un dialogo tra linguaggi. Prima di Darmstadt e della rigorosa, intellettualistica “fase seconda”, la sensibilità della nuova musica negli anni del dopoguerra si traduceva spesso nella ricerca di un nuovo equilibrio tra le arti, tutto da scoprire e riscoprire: musica, ma anche pittura, danza, letteratura, poesia e teatro. È questo uno dei temi ricorrenti che emerge dalle pagine di Riccardo Malipiero. L’antidogmatico, nuova preziosa pubblicazione della collana dell’Associazione Nomus con Die Schachtel, curata da Maria Maddalena Novati e Marina Vaccarini, su una delle figure chiave ma troppo spesso trascurate del panorama culturale italiano del secolo scorso.
Il volume raccoglie i testi di alcune conferenze-concerto e gli atti di una fondamentale giornata di studio dedicata al compositore nel 2014, in occasione del centesimo anniversario della sua nascita, ed è arricchito da una notevole quantità di fotografie, immagini di archivio, locandine, articoli e recensioni, ma soprattutto dai coloratissimi bozzetti di Franco Rognoni per l’opera buffa La donna è mobile, dalle tavole che il medesimo artista ha realizzato per Tre frammenti, da quelle di Ernesto Treccani per Accettura, e ancora dalle fotografie delle maquettes di Luigi Veronesi per l’ardito e inclassificabile Balletto.
Va detto subito che Malipiero non è stato solo un artista, ma un intellettuale a tutto tondo: è questo l’inevitabile punto di partenza per tentare di cogliere la complessità del personaggio, fin dalla giovanile collaborazione con il gruppo “Corrente” nel 1938. “Questo è, diciamo, l’inizio della mia vita” commentava il compositore ricordando il periodo degli incontri con Treccani, Veronesi, Sereni, gli architetti dello studio BBPR che, tutti insieme, lo portarono a un ripensamento del rapporto tra musica e arte, o meglio arti, al plurale. Colpisce la lettura di uno degli scritti di quegli anni, gli illuminanti Appunti per un teatro musicale, in cui si intuisce il fruttuoso conflitto teorico vissuto allora da Malipiero, che da una parte voleva liberare l’arte dagli intellettualismi, mantenendo però dall’altra la consapevolezza che solo l’intelletto è capace di dare ordine, con l’obiettivo “di un valore musicale assolutamente puro”.
Nel dopoguerra era sorta la necessità di fare i conti con l’esperienza del fascismo, che in vent’anni era riuscito a mistificare e deformare tutta la storia della musica. Per questo fin dal 1948 Malipiero aveva sentito l’urgenza di rimettere in ordine il passato: lo fece con due saggi, uno su Bach e uno su Debussy, premesse necessarie per avventurarsi nei cambiamenti del linguaggio musicale. E cambiamento in quegli anni voleva dire tecnica dei dodici suoni, che per la verità Malipiero aveva cominciato ad adottare già da qualche anno. Non sorprende quindi che proprio lui sia stato uno degli organizzatori del primo Congresso di Musica Dodecafonica, tenutosi nel 1949 a Milano, con compositori provenienti da tutto il mondo e un telegramma inviato dallo stesso Schönberg per benedire l’iniziativa. Uno dei temi più interessanti dibattuti in quelle giornate, poi rielaborato da Malipiero in scritti successivi, è se la dodecafonia sia da ritenere una tecnica o un’estetica. In un passaggio in cui il compositore si domanda chi, nel centinaio di musicisti che allora usavano quella tecnica, sarebbe stato ricordato in futuro, si legge: “Sopravvivranno quelli che, toccati da vera genialità, avranno saputo usare d’una tecnica per creare l’opera d’arte”.
Dell’ampio e vario catalogo di composizioni di Malipiero, il volume si concentra principalmente sul suo teatro musicale. A partire dal giovanile Giulio Cesare concepito “per integrarsi nella spettacolarizzazione della propaganda fascista”, come spiega Alessandro Turba che ha scoperto queste inedite musiche di scena. Passando poi attraverso il geometrico, astratto, stravinskiano Balletto, si giunge ai tre atti di Minnie la candida, primo incontro di Malipiero con il “realismo magico” di Bontempelli, rappresentata a Parma nel 1942 nella rassegna “Teatro delle Novità”, vero e proprio laboratorio per la nuova musica curato da Bindo Missiroli, la cui visione illuminata aveva reso Bergamo uno dei centri della vita musicale italiana (l’opera andò in scena però in trasferta a Parma, con direzione di Gianandrea Gavazzeni). Ampio spazio prende poi la relazione di Benedetta Zucconi su La donna è mobile, atto unico rappresentato nel 1957 alla Piccola Scala (ancora direzione di Gavazzeni) tratto dalla commedia di Bontempelli Nostra Dea. Nonostante la perplessità di una parte della critica (ad esempio Franco Abbiati, che la stronca con continui riferimenti al lavoro dello zio di Malipiero, il compositore veneziano Gian Francesco che con il nipote ha condiviso cognome e professione), l’opera contraddice il preconcetto secondo cui la rigorosa tecnica dei dodici suoni non sia adatta al teatro comico. Per verificarlo si ascolti il CD allegato con una rara registrazione del 1969 della RSI. A Barbara Babić il compito invece di rievocare Battono alla porta, sorta di “concerto per pianoforte e acqua” su libretto di Dino Buzzati: uno dei più importanti esempi italiani di opere musicali concepite per la televisione, in anni in cui la RAI sperimentava moltissimo (la direzione è dell’inesauribile Nino Sanzogno). Si giunge infine a quella sorta di installazione che è Accettura, che prende il nome da un paesino in Basilicata: affascinante lavoro audiovisivo proiettato a Savona nel 1990 di cui parla l’etnomusicologo Nicola Scaldaferri.
È però Emilio Sala che centra forse la questione fondamentale sulla musica di Malipiero, esponente di una generazione di mezzo “in cui è troppo giovane per essere Dallapiccola e troppo vecchio per essere Maderna”. Malipiero è stato un esponente di avanguardia, per così dire, morbida: legata al modernismo, ma “scavalcato a sinistra dalla nuova musica”. Della poetica di Malipiero resta soprattutto l’esempio di una vibrante varietà dell’ispirazione, che facilmente nasceva dall’influenza dei suoi amici pittori astrattisti o architetti, al punto che arriverà a paragonare la musica all’architettura, per la costruzione formale. Non è un caso che quando nella sua storia della musica, Massimo Mila deve affrontare il capitolo dei nuovi maestri della generazione da Dallapiccola a Petrassi fino a Peragallo e, appunto, Malipiero, cita quanto Bruno Zevi ha scritto su Gunnar Asplund e sull’architettura razionalista: “Il razionalismo sembrava liberarsi dalla sua condizione meccanicistica, era maturo e gioioso anziché programmatico e severo. In effetti si parlò allora, per la prima volta, di superamento del razionalismo o di una sua sensibilizzazione alle esigenze psicologiche”. Questa umanizzazione dei dogmi dodecafonici, in Malipiero, è ciò che gli ha permesso di trovare una poetica non solo plastica e adattabile, ma personale: una musicalità che andava al di là delle scuole, delle convenzioni, della politica, e per questo capace di accogliere anche gli altri linguaggi.