Un mostra al MAST di Bologna presenta il bellissimo lavoro del fotoreporter irlandese Richard Mosse (1980): utilizza tecniche sofisticate e pellicole speciali di uso militare per documentare le tragedie del nostro tempo con immagini di forte impatto estetico. E obbliga a porsi una questione: fino a che punto è legittimo teatralizzare fenomeni così drammatici?
“Il bersaglio è lo spettatore non il soggetto” è la stentorea affermazione del fotografo (ma vedremo che questo è un termine riduttivo) Richard Mosse. Irlandese, 41 anni, oggi vive a New York ma gira il mondo per documentare “Migrazione, Conflitto e Cambiamento climatico”, come recita il sottotitolo della mostra Displaced appena inaugurata (e fino al 19 settembre) presso il MAST di Bologna. Il MAST (Manifattura di Arti Sperimentazione e Tecnologia) è un’istituzione voluta da un consorzio di industriali emiliani che trova posto, nel quartiere industriale di Reno, in un bellissimo edificio che costudisce un’importante collezione di video e foto industriali.
Mosse comincia, ancora studente, con il fotoreportage nelle zone più calde del pianeta. I suoi primi lavori sono dedicati alla ex Yugoslavia o al confine tra Stati Uniti e Messico. In questo lavoro – alcune immagini di questo periodo, molto belle, sono esposte in mostra – Mosse avverte però i limiti del suo lavoro. L’aspetto documentaristico lo soddisfa, quello artistico meno.
Poi un incontro fortuito e decisivo. La Kodak, in piena crisi, dismette alcune linee produttive tra cui quella che realizza la pellicola Aerochrome, un supporto usato per ricognizioni militari. Peculiarità di questa pellicola è la trasformazione, tramite un meccanismo sensibile ai raggi infrarossi, del verde della vegetazione in un colore che va dal rosa al rosso al cremisi. Ciò consente di individuare più facilmente le presenze nemiche. Mosse si arma di questa nuova macchina e va in Congo. Quando scrivo “si arma” intendo letteralmente: queste macchine sono considerate armi, necessitano di un porto d’armi e per passare le frontiere hanno bisogno di permessi adeguati (Mosse si rivolge a uno studio legale di Dublino).
Questa esperienza è cruciale per la sua formazione umana e professionale. L’artista vive nella zona orientale del Congo – teatro di scontri feroci tra fazioni ribelli armate, spesso piccole bande fuori controllo – quasi tre anni. Il lavoro documentato in questa esperienza compare nella mostra sotto il titolo di Infra. Il Congo, che dovrebbe essere uno dei paesi più ricchi e potenti dell’Africa, dilaniato da secoli di schiavismo, colonialismo brutale (fu per quasi trent’anni possedimento personale del re Leopoldo II del Belgio) è oggi tormentato da una guerra civile al di fuori di tutte le regole che si è scatenata già all’epoca del suo affrancamento dal regime coloniale.
L’effetto della pellicola Aerochrome, le immagini di guerra, di giovani soldati, di villaggi precari e desolati circondati da una vegetazione rossa, cremisi, rosa è straniante. Da copertina di libro di fantascienza.
Questa esperienza ha generato un video Enclaves presentato, con le musiche di Ben Frost, alla Biennale di Venezia del 2013.
La mostra è divisa in 5 sezioni. Infra fa seguito alla sezione Primi Lavori, quelli più tradizionali.
Segue la sezione Heat Maps, termine militare traducibile in “mappe termiche” una tecnica che usa una macchina fotografica che impressiona le pellicole usando, anziché la luce visibile, una termocamera in grado di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi. Il principio è: la luce è calda, l’oscurità è fredda. Queste termocamere (anch’esse considerate a tutti gli effetti armi militari) riescono a registrare uomini e oggetti a trenta chilometri di distanza.
La serie è una drammatica esplorazione del fenomeno della migrazione. Le foto – che a un primo sguardo sono un misto di una fitta iconografia cinese e delle affollate incisioni di Altdorfer – sono impressionanti. L’effetto termico crea immagini argentate su fondi che progressivamente virano al nero. Qui sono documentati i campi profughi del Libano, Turchia, Grecia. Incredibile la foto scattata al Tempelhof di Berlino: il vecchio aeroporto trasformato in centro d’accoglienza dove convivono le alte torri di controllo e le povere abitazioni dei profughi.
Sempre in questa sezione forse l’immagine decisiva del lavoro di Mosse: Skaramagas, il campo profughi adiacente al porto di Atene dove si alternano i container destinati a movimentare le merci con quelli che sono diventate le case di una vera e propria città di profughi. “Le merci si muoveranno, gli uomini no; circondati come sono da filo spinato e vessati da controlli asfissianti” dice l’artista. L’opera, oggi nella collezione del MAST, è un’immagine di sette metri per uno e trenta ed è realizzata ricucendo millecinquecento fotografie.
Le ultime due sezioni sono dedicate all’Amazzonia. Ultra, composta da affascinanti immagini di piante e fiori amazzonici fotografati servendosi di una torcia a luce ultravioletta e facendo ricorso a esposizioni multiple, è un poetico omaggio alla fragilità di queste specie sempre più esposte all’aggressione dell’uomo. Infine Tristes Tropiques in cui il titolo del più celebre saggio di Claude Lévi-Strauss è preso in prestito per una serie di foto realizzate con i droni per le riprese aeree. “Documenta, misura e mappa con grande precisione i diversi tipi di distruzione cui la foresta pluviale sta andando incontro” (Urs Stahel, curatore della mostra e della sezione Fotografia del MAST). Mosse usa una pellicola multispettrale impiegata nella tecnologia satellitare più avanzata.
Obiettivo dichiarato dell’artista è quello di creare disagio. E ci riesce.
Ma oltre al disagio che provoca la vista di immagini così forti ed elaborate, emerge un altro disagio più sottotraccia. È giusto teatralizzare, scenografare fenomeni così drammatici?
È giusto prendere un teschio e “ambientarlo” per realizzare una bella fotografia?
L’artista risponde nella conferenza stampa organizzata il giorno della presentazione della mostra. Mosse si collega da New York.
“L’arte è un fenomeno che vive la tensione tra etica ed estetica” dice l’artista. “La mia è una ricerca che sfocia nella produzione di immagini. Foto e video. Verificati i limiti del fotoreportage tradizionale la mia ricerca si è indirizzata su un piano più artistico. Il mio percorso– grazie agli strumenti tecnologici di cui mi servo – è andato nel senso di potenziare e amplificare la funzione visiva delle opere che propongo. Ed essere sempre più coinvolto nella complessità delle situazioni drammatiche che sono l’oggetto delle mie ricerche. Ma la mia ambizione rimane sempre quella di essere una voce di questa gente”.
Mi convince? Comunque sia Displaced rimane una mostra da vedere. Assolutamente.
Richard Mosse. Displaced, a cura di Urs Stahel, Bologna, MAST, fino al 19 settembre 2021.
Immagine di copertina: © Richard Mosse, Vintage Violence, eastern Democratic Republic of Congo, 2011 (serie Infra). Courtesy of the artist and Jack Shainman Gallery, New York