Ispirata a La metamorfosi di Kafka, l’opera incompiuta, che risale al 1957, è andata in scena per la prima volta il 2 settembre in apertura della stagione lirica del Teatro Lirico Sperimentale. Ottimo lavoro di integrazione di Alessandro Solbiati
Il primo treno del mattino è partito, ma Gregorio non c’era. Il treno delle sette, l’ultimo per non tardare al lavoro, sta partendo, anzi è già andato. Gregorio non si vede. La madre, il padre, la sorella di Gregorio sono al tavolo della colazione. Si guardano perplessi. Sta male? Nessuno osa avvicinarsi alla stanza. Squilla il campanello di casa: è il Gerente (in Kafka il Procuratore), guardiano severo di ogni dipendente, colpevole anche solo di esserlo. Perché Gregorio non ha preso il treno delle cinque? Un imprevisto o una mancanza da punire? Si rischia il licenziamento. No, Gregorio è malato, invoca la madre. Però nemmeno lei è sicura. Gregorio è in camera, risponde a monosillabi. E vogliamo aprirla questa porta? Lo fa il Gerente, che sbianca e lancia un urlo. Mamma papà e sorella si affacciano e arretrano sconvolti. Gregorio non è Gregorio: dal suo letto si è alzato un enorme insetto con carapace nero e zampette. Parla con la sua voce, invoca pazienza, pietà, ma non è lui. È un mostro.
Chiaro: siamo in uno degli incubi più celebri della letteratura: La metamorfosi di Franz Kafka (1915). Trionfo dell’oscurità e dell’ambiguità. Pochi lo sanno, ma con il titolo La porta divisoria, l’inquietante racconto trovò la via del teatro, nel 1957, per mano di un librettista fuori del comune, Giorgio Strehler, e di un musicista altrettanto fuori da ogni schema, Fiorenzo Carpi. Entrambi in dérapage dalla strada che stavano percorrendo insieme al Piccolo Teatro di Milano.
Dall’anno in cui fu iniziata e poi lasciata incompiuta -ma solo per un quinto –, La porta divisoria è andata in scena per la prima volta il 2, 3 e 4 settembre a Spoleto, nel gioiello del piccolo Caio Melisso, in apertura della settantaduesima Stagione lirica del Teatro Lirico Sperimentale, laboratorio di giovani talenti, corsia indipendente e complementare al festival fondato nel 1958 (coincidenza) da Giancarlo Menotti in un luogo simbolo dell’Italia che crede nella cultura.
La porta divisoria è un monodramma sintetico e penetrante (sessanta minuti) che assimila il surreale di Kafka ai principi che il Piccolo ha elaborato giusto con Strehler e il “suo” musicista: drammaturgia fondata sulla verità e leggibilità della parola, senza retorica. Ma, appunto in devianza dal rapporto che li tenne insieme per quarant’anni, La porta divisoria tentava l’affondo, rischioso per entrambi, nel mondo dell’opera contemporanea, che chiedeva di ribaltare tutto. Strehler, come Da Ponte, doveva fornire alla musica solo la pista di decollo. E non viceversa, Carpi, il “commento” e il “clima” alla parola di Strehler.
Qualcuno sapeva di quest’opera strana e segreta, ma nessuno l’ha mai fatta ascoltare. Lo Sperimentale ha avuto il coraggio di darle vita, in un allestimento che, sotto la direzione sicura di Marco Angius, nell’idea registica di Giorgio Bongiovanni – scuola Piccolo -, aveva le chiavi giuste per aprire la porta: la qualità e la dedizione dei giovani strumentisti e dei cantanti-attori che lo Sperimentale scopre e coltiva per missione. Alla prima recita si sono presi i giusti applausi Davide Romeo (concorso 2022) nella parte di Gregorio; Elena Finelli (concorso 2021), Oronzo d’Urso (2021) e Davide Romeo nella parte per tre interpreti della Voce di Gregorio; Giacomo Pieracci (concorso 2021) come padre di Gregorio; Simone van Seumeren nella parte della Madre; Antonia Salzano (2021) come Sorella di Gregorio, Davide Peroni (concorso 2022) nella parte del Gerente. Ma sedici cantanti si sono alternati nelle tre recite, e ciascuno meriterebbe di essere nominato.
La colpa di essere mostro.
Il perno su cui ruota lo spettacolo – essenziale, un tulle, una porta in trasparenza -, è anche il rovesciamento del soggetto narrante: non è Gregorio (il Gregor Samsa di Kafka) a raccontare la follia di vedersi trasformato in insetto che ragiona e parla come un umano, ma sono gli umani (madre, padre, sorella, procuratore) a reagire alla sua mostruosità, dimostrandosi peggiori del mostro. Dallo sconcerto iniziale, con solo qualche tentativo di compassione, tutti finiscono per esibire la loro verità capovolta: bisogna disfarsi del mostro. Gregorio non è vittima ma colpevole. La famiglia si vergogna di lui; si è costretti a nascondere e a mentire; manca uno stipendio; la sua bavosa presenza rischia di far perdere gli inquilini ospitati per coprire gli ammanchi. È Gregorio che li ha traditi, non lui a soffrire una ectoplasmatica sventura.
I cinque quadri in cui La porta divisoria si snoda, sono il crescendo di questa sindrome, che nasce già dall’impostazione del libretto di Strehler, conciso e quasi disadorno, musicato da Fiorenzo Carpi con un linguaggio che per la prima volta per lui, tonale e melodico, doveva mostrare qualità “colte” che tutti potevano intuire dalle sue musiche di scena, ma nessuno poteva immaginare o assaggiare in concreto.
Il tempo.
La porta divisoria ha la cifra del tempo in cui fu pensata. La tecnica e la sintassi di voce e strumenti sono quelle in cui Carpi era cresciuto ed era convinto si esaurisse la “nuova musica” di alto profilo, ben aderente a un rigore accademico plasmato dal pensiero seriale. Di suo, e di libero, Carpi aggiunse un sano pragmatismo e il tocco realistico dei suoni concreti (rumore di tazze, il correre del tram: Milano, dunque). I confini musicali della lingua dominante nel secondo dopoguerra sbalzano ancora più evidenti nel confronto diretto con il quinto quadro, quello di cui alla Porta divisoria mancano più elementi originali: completato, ovvero scritto per intero, da Alessandro Solbiati, su commissione dello Sperimentale. Dai quattro “di Carpi” al quinto quadro di Solbiati (autore di un lavoro eccellente) l’ascolto è rivelatore proprio perché non nasconde, anzi puntualizza lo scorrere del tempo. Anche la musica compie una sua metamorfosi, perché sono passati quarant’anni di “contemporaneità”, e nella Porta divisoria li vediamo scorrere davanti agli occhi, implacabile. Ma Fedele d’Amico ammoniva che ogni ascolto consapevole è figlio del senso storico, ed è questo che ci impone di ammirare, del compositore che inventò il “suono” di Strehler, la qualità della scrittura, la sensibilità strumentale, la concretezza, l’articolazione, la “direzionalità” del canto, che non fa perdere una riga di testo.
I mezzi a disposizione hanno anche indotto lo Sperimentale a ridurre l’organico dai 56 strumenti originali ai 13 di una concisa ma esauriente dimensione cameristica (Matteo Giuliani, molto giovane anche lui, ci ha lavorato bene). La porta divisoria ascoltata a Spoleto diventa così il modello e, speriamo, il primo atto di una vita futura, che la storia le deve.
I dubbi.
Questo debutto ha anche il merito di far emergere due elementi preziosi per la comprensione del “caso”. Il primo nasce dalla rivelazione di Martina Carpi, figlia del musicista: La porta divisoria fu iniziata poco dopo che alla famiglia era giunta la certificazione della morte del fratello di Fiorenzo, avvenuta prima del 1945 in un campo di concentramento nazista. Così, si rivela ancora più plausibile l’impostazione dello spettacolo, che nell’intolleranza del “diverso” – e nella violenza su Gregor, colpevole mostro -, vede affiorare intenzioni segrete in Strehler e Carpi.
Il secondo merito è sciogliere un poco il mistero attorno alle ragioni per cui Carpi, che amò, curò e revisionò la partitura fin quasi al 1998, anno della morte sua e di Strehler, non fosse riuscito a mettere la parola fine al lavoro. Il completamento “a vista” di Solbiati fa intuire quel che Carpi pensasse della sua Porta man mano che gli anni passavano. Il contesto della musica contemporanea sostituiva al rigore del postserialismo forme di flessibilità in cui ridiventavano strumenti “colti” anche la tonalità e la melodia, ovvero gli strumenti “di Carpi”, e nuove forme di astrazione timbrica prendevano corpo. I dubbi di Carpi potevano essere ben motivati da questa consapevolezza in divenire. Il pensiero di ridurre se non azzerare tutto ha diversi riscontri in diverse testimonianze e documenti.
De Sabata sì, Milano no.
La porta divisoria fu commissionata da Victor De Sabata, direttore musicale della Scala, che la mise in programma nelle stagioni 1957 e 1958, per quel laboratorio di antico e moderno ch’era la Piccola Scala, e ora non è più. Non se ne dimenticò Luciano Chailly anni dopo, quando cercò di metterla in stagione nel 1972, ancora senza successo. Ogni materiale per l’esecuzione è conservato nell’archivio del Piccolo Teatro, che pochi mesi fa ha celebrato Strehler insieme alla Scala con mostre congiunte. Ma né la Scala né il Piccolo hanno mosso un dito per sottrarre al silenzio questo inedito. Lo ha fatto lo Sperimentale di Spoleto, che ha come direttori musicali Michelangelo Zurletti, già critico di Repubblica, ed Enrico Girardi, attuale critico del Corriere. La cultura e gli intellettuali hanno fatto il loro dovere. Milano e le sue istituzioni no. Almeno finora.
Foto di Riccardo Spinella