La riforma dell’opera di Pechino racconta con semplicità disarmante la fatale sottomissione degli uomini alla stupidità del Potere
Durante la Rivoluzione Culturale a un giovane, brillante assistente di Storia della Letteraura Cinese dell’Università Beida viene assegnato l’incarico di fare La riforma dell’Opera di Pechino, di riscrivere cioè il repertorio operistico classico per adattarlo ai principi del comunismo.
Maël Renouard, professore di filosofia alla Sorbona e all’École Normale Supérieure scrive la sua storia, basandosi su un’ampia documentazione: ‘tutti i personaggi citati nel racconto sono esistiti; i discorsi che sono stati attribuiti sono immaginari’, dichiara l’autore.
Il romanzo racconta con semplicità disarmante la fatale sottomissione degli uomini, a meno che non siano votati al martirio, all’arroganza, alla stupidità del Potere. Il racconto è strutturato a flash-back. Un vecchio, caduto in disgrazia dopo la caduta della famigerata Banda dei Quattro, spera nella sua riabilitazione: “…ho coltivato a lungo la speranza di essere un giorno considerato degno della storia del nostro paese. La ruota aveva girato, avrebbe girato di nuovo”.
Non biasima l’apparato del Partito che l’ha rinnegato. I nuovi quadri sono figli del loro tempo, come lui del suo. Gli era stato detto che era un criminale, che aveva avuto ‘il folle orgoglio di fare a pezzi una civiltà antica di migliaia di anni’, che della Rivoluzione Culturale non bisognava parlarne più, bisognava cancellarla. E lui ne era stato un protagonista. Cominciano i ricordi. Siamo nel 1962 o 1963. Lo troviamo timido, appassionato assistente di Letteratura Cinese. La famiglia prima della Rivoluzione era ricca e potente. Forse perché il nonno era amico di Zhou Enlai, forse perché aveva conosciuto l’imperatore decaduto Pu Yi ( quello che conosciamo anche noi dal film di Bertolucci: L’Ultimo Imperatore), fatto sta che al giovane viene assegnato il compito di aiutare Pu Yi a scrivere le sue memorie. Il ragazzo, nonostante un certo confuciano rispetto verso quel prigioniero che era stato l’ultimo sovrano feudale, lo continua a correggere, a uniformarlo all’ortodossia maoista. Solo così il professorino diventerà un quadro del ‘fronte dell’educazione e della cultura’, e si porrà al riparo da pericolosi dossier sulle sue origini alto borghesi.
Evidentemente fa un buon lavoro di lealismo ideologico, perché Yoau Wenyuan, il critico più temuto e pericoloso del regime, gli affida l’incarico di modernizzare ed epurare i libretti dell’Opera di Pechino da ogni ‘erba velenosa’ per il proletariato.
Gli esempi che ci dà della manipolazione dei testi sono esilaranti. Gli spettacoli hanno un successone fino alla caduta di Mao. Poi il Nuovo Corso, la Cina capitalista epura lui e rimette in scena l’Opera Tradizionale. Ma, dopo un po’ di curiosità iniziale, non piace a nessuno, neanche ai turisti occidentali.
Così – paradosso della Storia – si ritorna a rappresentare la Nuova- Vecchia Opera di Pechino, quella per intenderci con le eroiche Guardie Rosse al posto dei mandarini, il Libretto Rosso invece di Confucio.
Immagine: Pechino, Città proibita di Sergio e Gabriella Trentanni