Al teatro Ponchielli di Cremona l’opera di Handel rivista in chiave moderna dal direttore d’orchestra secondo il quale l’opera barocca, per il suo carattere astratto, si presta a essere trasposta in altre epoche
Al Teatro Ponchielli arriva il Rinaldo di G. F. Handel, produzione realizzata in collaborazione con OperaLombardia, che debutterà al teatro cremonese venerdì 23 novembre, con replica domenica 25, prima di raggiungere i teatri del circuito As.Li.Co di Brescia, Como e Pavia. L’opera è affidata ad alcune delle voci più interessanti del repertorio barocco, come Delphine Galou, Francesca Aspromonte e Raffaele Pe, sul podio Ottavio Dantone che dirige la “sua” Accademia Bizantina. E proprio con il Maestro Dantone – direttore musicale dell’ensemble dal 1996 – abbiamo parlato della nuova produzione ma anche di musica antica, regie contemporanee e di nuovi progetti in cantiere.
Nel comunicato stampa del Rinaldo viene segnalata la sua scelta di unire le due versioni dell’opera, quella del 1711 e del 1731. Come ha lavorato per preparare la nuova edizione? E cosa salta fuori da questo studio?
Innanzitutto l’operazione che ho fatto – ovvero mischiare due fonti diverse – è quanto di più filologico ci possa essere. Nelle due versioni Handel cambiava i ruoli vocali a seconda dei cantanti che aveva a disposizione e, per esempio, nella versione del 1731 taglia completamente un personaggio. In questa nuova versione, ho cercato di mettere quello che per me è meglio dal punto di vista vocale e drammaturgico.
Facciamo qualche esempio.
Avendo a disposizione un contralto puro (Delphine Galou), la parte di Rinaldo è quella del 1731 – che era stata scritta per il celebre castrato Senesino – , il mago è un baritono (e non il contralto della prima versione), mentre la vocalità di Armida è quella del 1711, ovvero un soprano (più credibile rispetto al contralto del ’31). Tra le due versioni ho fatto alcune scelte, mantenendo le arie più belle e la struttura drammaturgica.
Il direttore d’orchestra ha quindi anche la funzione di proseguire l’attività del compositore.
Si, soprattutto nel cercare di trasmettere, veicolare, le intenzioni del compositore in senso emotivo. Questo è secondo me il vero significato della filologia, non il semplice utilizzo degli strumenti antichi. Interpretare, tradurre in termini pratici, emotivi l’intenzione dell’autore è sicuramente la cosa più onesta da fare: non è la mia interpretazione, ma è quello che io credo di vedere nella partitura, alla luce di tutti gli studi sulla musica antica, sulla prassi esecutiva, sulla retorica soprattutto. Il fine ultimo è quello di trasmettere al pubblico la massima emozione possibile che il compositore aveva in mente. Se noi sappiamo parlare la lingua giusta, riusciamo a trasmettere quest’emozione da 300 anni fa a oggi intatta, perché non cambiano i sentimenti di amore, odio e passione.
In questa prospettiva, una regia contemporanea può funzionare?
Può funzionare tranquillamente. Paradossalmente l’opera barocca si presta a essere trasposta in altre epoche, per il suo carattere unico e astratto. Anche quando essa si occupa di argomenti storici, il fine non è quello di trattare la Storia, perché questa viene deformata dalle relazioni dei personaggi, dalle loro passioni. Funziona benissimo la trasposizione contemporanea sempre che non si deformi la relazione retorica tra i personaggi. Un grave errore, perché a quel punto non funzionano più i meccanismi drammaturgici e teatrali. Non c’entra il costume, la messa in scena…
C’entra la drammaturgia.
Non si può cambiare il dramma e far diventare Argante e Rinaldo amanti. L’importante è che si mantenga la drammaturgia dell’opera perché la musica parla di quello.
La regia di Jacopo Spirei, allievo e assistente di Graham Vick, che cosa porta di nuovo al Rinaldo?
Secondo me una delle ansie dei teatri, a volte dei registi (e talvolta del pubblico) è proprio quello di fare a tutti i costi qualcosa di nuovo. Non è necessario cercare la novità, ma costruire qualcosa di interessante ed emotivamente forte. Da quel che ho visto (ndr Dantone è appena tornato da una serie di concerti in Europa con Accademia Bizantina), adeguandosi alle dimensioni e alle possibilità del teatro di tradizione, il regista ha creato la drammaturgia a partire da una sfida psicologica.
Una lotta contro se stessi.
Il personaggio di Rinaldo parte dalla vita reale, e passa a una dimensione confusa di sogno e realtà. Si deve confrontare con la lotta contro il male del mondo, che viene rappresentata da un club privé. In assenza di effetti speciali – che a quest’opera vengono spesso associati – l’importante è la sorpresa dal punto di vista emotivo e psicologico e l’identificazione da parte del pubblico. La magia del teatro è proprio riuscire a far dimenticare ai presenti di trovarsi a teatro.
Parlando di magia del teatro, prossimamente lei tornerà alla Scala con la Cenerentola di Rossini nell’ormai “classica” regia di Ponnelle. Cos’ha ancora questa Cenerentola da dire?
Non devo per forza dire qualcosa o lasciare dei lasciti indimenticabili. Io cerco di fare uno spettacolo bello ed emozionante. Dirigendo molto il repertorio operistico, mi capita spesso di fare allestimenti moderni, ma è bello anche fare un allestimento classico. Ci sono cose che non hanno tempo, come la classicità di Ponnelle.
Lei è un acuto conoscitore dell’universo handeliano, a cui torna spesso. Ricordo le sue registrazioni con Andreas Scholl (Arias for Senesino).
Anche se il mio autore preferito è Bach, Handel è un compositore nel quale è facile rispecchiarsi per la sua abilità nello scrivere la musica vocale. La sua abilità non risiede solo nella drammaturgia, ma anche nella scrittura delle arie: normalmente nella prima parte tratta la materia melodica in modo molto affascinante e ha l’abilità di lasciare lo spazio per le variazioni della seconda parte.
Un grande lavoro sull’organizzazione della struttura.
Sì, ma non solo. La materia melodica viene presentata a un livello molto alto, però lasciando la possibilità all’artista di esprimersi successivamente nel daccapo o nelle variazioni. Io vedo la variazione come il luogo di ricerca ed esasperazione di certe parti emotive. È un autore completo per l’ottica illuministica, secondo cui la musica era un mélange di tutti gli stili: Handel era di formazione tedesca, ma aveva studiato a lungo in Italia, senza tralasciare lo stile francese. Dal punto di vista filosofico ha raggiunto nel barocco quello che poteva essere considerato lo stile perfetto.
Nei teatri di Reggio Emilia porterà invece Serse, sempre di Handel.
Serse è un’opera estremamente innovativa perché nella struttura generale ci sono ben poche arie col da capo e c’è un tentativo di dare continuità alla vicenda, un procedimento che anticipa la riforma di Gluck. L’opera ha un’altra particolarità: l’inserimento di elementi grotteschi e buffi, alquanto straniante per il pubblico, in un momento in cui l’opera buffa stava per fare il suo ingresso. Spiazzato da queste novità, purtroppo il pubblico dell’epoca non apprezzò molto l’opera.
Ora parliamo di Accademia Bizantina, con cui collabora dal 1989. A che punto della sua storia si trova il gruppo? Quali i passi per il futuro?
In verità dirigo Accademia dal 1996, prima ero solo cembalista dell’ensemble. Sono passati più di vent’anni dall’inizio della mia direzione e abbiamo avuto tante fasi: gli incontri con le case discografiche e gli artisti, momenti di crisi (anche economica) e adesso stiamo avendo una nuova rinascita, con un nuovo sponsor che ci aiuta e un rinnovato entusiasmo. Abbiamo molti progetti discografici e concertistici in cantiere. Infine, abbiamo un progetto in divenire che si chiama Revolution che ci porterà ad affrontare autori come Mendelssohn e Schumann sempre su strumenti originali.
Una proposta interessante…
È una sfida con noi stessi. Noi non vogliamo “rubare” questo repertorio agli strumenti moderni ma ce ne riappropriamo proprio perché utilizziamo gli strumenti giusti. Oggi si tende a dividere la musica antica con strumenti antichi dalla musica moderna con strumenti moderni, una distinzione molto banale perché il problema non risiede qui, anche se molti si identificano ancora con lo strumento. La musica romantica ha tanti elementi nascosti che provengono dal passato, ci sono gesti musicali che hanno bisogno della loro conoscenza e il fine ultimo è sempre quello di rendere questa musica ancora più chiara ed emozionante.
Una riflessione giusta e impeccabile, anche perché talvolta sembra che nell’Ottocento si faccia tabula rasa col passato. Revolution troverà esito in registrazioni discografiche?
Nelle intenzioni, sì. Ho immaginato questo progetto, ma non voglio che venga fatto in maniera forzata, non ho ancora stabilito i tempi delle incisioni o come presentarlo in ambito concertistico. La cosa importante per me è che questo progetto – molto oneroso – si possa fare senza forzature, con le risorse adeguate, perché mettere su un’orchestra sinfonica con strumenti originali è molto costoso: paradossalmente i Berliner costerebbero meno dell’Accademia Bizantina ingrandita, perché loro hanno una struttura, noi viviamo solo del nostro lavoro.
Quali sono i dischi in uscita?
Di Vivaldi è appena uscito Il Giustino, Concerto per archi e viola d’amore, Agitata. Sempre nell’ambito del progetto Naive-Vivaldi, usciranno un disco di musica sacra e uno di musica profana. A gennaio usciranno i Concerti grossi di Handel e poi abbiamo in cantiere di incidere ancora due opere di Vivaldi, invece durante la produzione di Serse registreremo i Concerti per violino. Per avvicinarci a Revolution, abbiamo anche in mente di registrare musiche dei figli di Bach.
Nella nostra conversazione, abbiamo toccato più volte diversi aspetti legati alla musica antica. Il suo debutto risale agli anni Ottanta, con la vittoria di importanti concorsi, e ha quindi vissuto le diverse fasi di evoluzione dello studio della prassi. Adesso a che punto siamo? Cosa c’è ancora da dire e da studiare?
Non si smette mai di studiare. Lo studio della musica antica è per me sempre una fonte di scoperta, anche perché la retorica – l’aspetto che a me preme di più nella musica – è una materia che ha infinite possibilità di studio e lascia sempre aperte nuove riflessioni. Questo è un modus operandi di affrontare la musica con attenzione, onestà e controllo sempre maggiori. Tutto ciò serve a liberarsi perché la libertà nella musica passa attraverso una grande attenzione.
Fotografie © Alessia Santambrogio
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