È ambizioso il progetto dell’esposizione in scena alle Galleria d’Italia: raccontare, dal punto di vista dell’arte, un decennio tra i più contraddittori del Secolo. Con un filo rosso: il ritorno alla pittura
“Io sono stato da sempre un pittore spontaneo, fin da bambino, mi sento pittore per natura. Poi a Roma a vent’anni ho incontrato l’Arte povera e ho smesso di dipingere, così ho fatto delle esperienze post-concettuali. […] Cinque anni fa io e i miei amici abbiamo deciso che era tempo di riprendere in mano i pennelli […] e poi c’è stato parallelamente anche un rinnovo della pittura per questo senso di attraversamento di varie esperienze, di vari movimenti. Si tratta sostanzialmente di una nuova sensibilità”. È Mimmo Germanà, un artista oggi meno noto di quanto merita, che esprime così il senso liberatorio che conquista gli artisti negli anni Ottanta dopo un decennio di arte prevalentemente concettuale. Nello stesso momento anche nella società si avverte qualcosa del genere con l’abbandono del decennio della politica e l’ingresso in un’epoca più rilassata, in quell’edonismo che avrebbe contrassegnato il decennio reaganiano (in America) e craxiano (in Italia).
Ma a parte il senso quasi liberatorio sono poco avvertibili altri intrecci tra arte e società “soltanto” quarant’anni dopo. L’analisi della mostra in corso alle Gallerie d’Italia, curata da Luca Massimo Barbero, – Painting is Back. Anni Ottanta. La pittura in Italia – si concentra quindi non sulla società che quell’arte produsse ma sui movimenti artistici che contraddistinsero quel decennio.
Anche gli anni Ottanta sono dominati da un critico d’arte. Se nei Settanta era stato Germano Celant, adesso è Achille Bonito Oliva il protagonista incontrastato, figura che va ben al di là del puro critico assumendo un ruolo più vasto, carismatico, mediaticamente sovresposto.
Nel 1978 (i decenni cominciano sempre con un po’ di anticipo), su sollecitazione del gallerista modenese Emilio Mazzoli, Bonito Oliva pubblica un curioso libro, Tre o quattro artisti secchi, in cui presenta la prima mostra di artisti che di lì a poco avrebbero costituito il nucleo della Transavanguardia. Ed è indubbiamente da questo nucleo che parte la rivitalizzazione dei “vitali” anni Ottanta.
Bonito Oliva, ABO sarà ribattezzato, trasferisce su questi artisti il suo pensiero cardine di “traditore”, concetto che aveva coniato per definire la lateralità degli artisti del Manierismo rispetto alla centralità rinascimentale. Su questo tronco il critico inserisce due elementi essenziali nella definizione dell’arte del decennio, quello del cannibalismo – quella capacità che ha l’artista di attingere a fonti diverse, ai “depositi di una riserva inesauribile e continua, dove astratto e figurativo, avanguardia e tradizione, vivono all’incrocio di molte possibilità d’incontro” – e conseguentemente del nomadismo, la capacità e la libertà dell’artista di esplorare diversi sentieri creativi.
Ma la ricerca del curatore Barbero è proprio quella di recuperare l’arte del decennio nella sua completezza allargando l’indagine al lavoro di altri artisti (e curatori).
È un decennio in cui la creatività si decentralizza radicalmente e, in un certo senso, si meridionalizza. Bologna è più influente di Milano – si pensi all’esperienza dei fumettari della rivista “Cannibale” e a quella, puramente politica, degli indiani metropolitani – Napoli emerge su Roma – e mi vengono in mente i nuovi e più influenti galleristi come Lucio Amelio e l’appassionante stagione musicale del nuovo canto napoletano. Ma città protagoniste sono anche Modena, Ferrara, Ravenna e realtà ancora più piccole come Acireale o Genazzano.
Un decennio di trasformazione tumultuosa. “Finiti i tempi seriosi e moralistici dell’engagement, ecco subentrare l’irresponsabilità festosa del disimpegno, la ruota libera delle parole che si rincorrono tra loro, il flusso caotico delle immagini che si inseguono. Un tempo bisognava essere molto intelligenti (o far fina di esserlo); inoltre bisognava dimostrare di essere ‘puri’ e di ricercare l’autenticità a tutti i costi. […] Oggi si può essere tonti o demenziali (o far finta di esserlo) e beneficiare dei dis-valori dell’impurità, dell’inautentico, dell’artificio, dell’inganno, maliziosamente peccaminosi, colpevoli, insidiosi…” sono le parole illuminanti di Francesca Alinovi la critica bolognese che sarebbe diventata protagonista del periodo successivo se non forse incorsa in un destino balordo: fu trovata assassinata nel suo appartamento nel 1983. Aveva 35 anni.
È un decennio questo non solo “vitale” ma che corre, va di fretta. La mostra “Anni Ottanta” – a cura di Renato Barilli – si svolge già nel 1985 a Bologna e raccoglie, tra altri, tutti i protagonisti della mostra attualmente in corso alle Gallerie d’Italia. E i temi sono sempre quelli individuati proprio da Barilli quarant’anni fa: “Perdute tutte le speranze di rappresentare le cose, la pittura cerca l’illustrazione, il racconto, il romanzo, come l’abecedario che non nomina più nulla ma mostra se stesso in qualità di reale […] Un pop aristocratico”.
A confermarlo è proprio uno dei dipinti d’apertura Le stimmate di Enzo Cucchi del 1980. Ma l’opera che apre la mostra – quasi a sottolineare la disponibilità alle contraddizioni di tutto il decennio – non è un dipinto ma un video che si sviluppa in 25 schermi Il nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg) del 1984 dello Studio Azzurro.
Con Cucchi sono presenti naturalmente i “fabulous five” della Transavanguardia Mimmo Paladino – che è forse l’artista più rappresentato in mostra – Sandro Chia – con la sua opera manifesto Il pittore del 1978 – Francesco Clemente e Nicola De Maria.
Ma l’allestimento – molto bello come sempre alle Gallerie d’Italia – non si concentra su cronologie e movimenti. I 57 dipinti della mostra si dipanano in maniera autonoma da qualsivoglia schema e quindi accanto agli artisti della Transavanguardia si trovano le opere di Franco Angeli, Alighiero Boetti, Salvo, Aldo Spoldi, Luigi Ontani, Franco Angeli, Mimmo Germanà, Mario Merz, Aldo Mondino, Mimmo Rotella.
Un discorso a parte meritano per me due pittori “outsider”: Gino De Dominicis, il “cristallo dell’arte italiana” e la poesia particolarissima – “il coltivato esilio e l’avventuroso ritorno” per dirla con Tatti Sanguineti – di Carol Rama (unica donna nella mostra).
L’esposizione si chiude con due grandi dipinti di Valerio Adami ed Emilio Tadini. Molto puliti, decisamente estranei alla “sporcizia” degli esperimenti degli altri. Sporcizia che non teme di affrontare l’ultima opera della mostra: un gigantesco dipinto realizzato con vernice a spruzzo (due metri per tre e mezzo) Costellazione del 1983 di Enrico Baj. Forse un involontario omaggio alla più sporca delle forme espressive che si impongono in quel decennio, quella dei graffiti di strada.
Anche in questo decennio, come in quello dell’Arte povera, l’arte italiana ebbe grande risonanza internazionale tanto da far scrivere al “New York Times”, in occasione della mostra “Zeitgeist” del dicembre 1982 a Berlino, “the Italians […] turn up everywhere” (“Gli italiani […] sono dappertutto”).
Immagine di copertina: Mimmo Rotella, Pittura, 1990. Sovrapittura su lamiera,150 x 300 cm. Famiglia Rotella, Milano ©2021 Mimmo Rotella by SIAE