Un ritratto ogni 24 ore per un anno: Emma Marshall e Davide Buscaglia si sono dati lo stesso progetto, ma con modi e intenti differenti che qui ci raccontano
È il momento del ritratto. Autoritratto, scattato con il proprio cellulare per comunicare al mondo come ci sentiamo, cosa stiamo facendo, ma anche ritratto dell’altro, per avvicinarci, stabilire un contatto. Collezionare persone da guardare negli occhi, regalarle agli altri. Farlo per sentirsi meglio, per sentirsi vivi o per restituire un’immagine di se stessi alla propria città.
Progetti come Humans of New York e il loro successo, ripreso in tutto il mondo, dimostrano quanto l’uomo abbia bisogno di riconoscersi in qualche cosa, di meravigliarsi delle differenze e di rintracciare la comune umanità che lo lega al resto della specie. Ce ne sono tantissimi di progetti di questo tipo, che mettono in gioco tantissimi fattori. Esigenze artistiche, esigente antropologiche. Esigenze personali, che nascono come buoni propositi e dichiarazioni d’intenti nella stagione invernale quando il Capodanno si fa imminente o è appena passato e si cerca una sfida da inseguire e vincere durante l’anno successivo. Da un simile stimolo sono nati anche i progetti di Emma e di Davide, due giovani in cui mi sono imbattuta per motivi differenti e che hanno subito catturato la mia attenzione coi loro progetti.
Emma Marshall, fotografa londinese che lavora sia per il pubblico che per il commerciale, ama follemente viaggiare e ha fatto di tutto nella vita, compreso lavorare per diverse organizzazioni no profit, il che le ha permesso di vivere parecchio all’estero e di maturare l’esperienza che si può rintracciare nei suoi scatti. L’ho conosciuta quest’estate in Toscana, a un corso di fotografia. Inaspettata compagna di stanza nel casolare dove alloggiavamo, mi ha immediatamente conquistato con il suo entusiasmo. Mi ha raccontato del suo progetto la prima sera che ci siamo conosciute: un ritratto al giorno, a Portrait a Day, per un anno. Dopo avermelo illustrato, ha deciso che ci sarei finita dentro anche io. Trovate il suo lavoro su Facebook e su Instagram.
Davide Buscaglia ha 29 anni, è di Savona ed è un laureato in Psicologia. L’ho scoperto in un gruppo fotografico su Facebook. Lo scorso dicembre si è messo in testa di voler fotografare uno sconosciuto, uno stranger come lo chiama lui, al giorno, incontrato per strada, dal primo gennaio al trentuno dicembre, in qualunque condizione di salute e luogo, per vagliare il confine tra fotografia e psicologia, assolutamente labile perché «la fotografia ci confronta immediatamente con l’immagine che abbiamo/diamo/crediamo di avere di noi stessi». Cliccando qui potete godervi il suo blog, 365 strangers.
Guardare negli occhi i soggetti di Davide e leggere le note che prende durante ogni incontro offre a volte la sensazione di conoscere personalmente quelli che anche per lui, inizialmente, erano sconosciuti. Davide segue questo progetto per fare del bene a se stesso, eppure regala qualcosa anche a chi guarda quelle immagini. Emma dipinge dei quadri perfetti: sa offrire un ritratto fedele della persona che ha di fronte, registrandone la postura e, soprattutto, l’ambiente, che coi suoi oggetti identifica il soggetto anche se non ci troviamo faccia a faccia con lui. Ha una capacità di giocare con la luce che se fosse nata qualche secolo fa sarebbe di certo diventata una pittrice fiamminga.
Due tipi di ritratto diverso: uno, quello di Davide, più emotivo negli intenti e nel risultato. L’altro, più narrativo. E infatti Emma ha bisogno di meno parole, semplicemente ci dice come si chiama il suo soggetto e che cosa fa nella vita, perché è lì dove si trova, come in un diario di bordo, o un annuario, mentre Davide, che ferma tanti giovani, ma anche qualche vecchio, annota il motivo per cui a prima vista lo colpiscono e quello che gli lascia il loro incontro, come in un diario segreto. Ho intervistato entrambi, per capire meglio il motore dei loro progetti, così simili e così diversi.
Da dove è nata l’esigenza e l’idea di questo progetto?
Emma – Alla fine di ogni anno penso a com’è andato quello appena trascorso e agli obiettivi da raggiungere. Per diversi anni mi sono sentita insoddisfatta della mia produzione e ho deciso di voler lavorare di più, ma i risultati sono rimasti sempre più o meno gli stessi. A gennaio di quest’anno mi è venuta la vaga idea di un progetto da seguire tutti i giorni e mi sono concentrata sul ritratto, perché è il tipo di fotografia che in questo momento mi affascina maggiormente. Ho deciso di scattare un ritratto al giorno e di caricarlo su un blog: mi avrebbe reso responsabile e assicurato di andare avanti. Anche se non avessi pensato che quel ritratto giornaliero era il mio miglior lavoro, avrei comunque dovuto postarlo e continuare a espormi il giorno successivo. Ho voluto così instillare una pratica quotidiana, da svolgere sia che avessi un lavoro pagato da fare, sia un progetto specifico su cui lavorare o meno.
Davide – Diverse ragioni mi hanno spinto: alcune legate ad aspetti fotografici, altre, più complesse, partono da necessità psicologiche e relazionali. Dopo un paio di anni abbastanza piatti, a dicembre 2014 ho sentito il bisogno di un 2015 stimolante, originale e in contatto con l’altro: volevo abbandonare le giornate vissute senza obiettivi e il senso di solitudine, crescere come persona in relazione, aspetti utili per la mia quotidianità e la mia formazione. Ho deciso di darmi un obiettivo al giorno, tutti i giorni, da primo gennaio al 31 dicembre, contrastare il senso di solitudine andando incontro all’altro, mettermi in gioco personalmente e professionalmente con relazioni ed esperienze quotidiane sul cui significato riflettere. Domeniche – festività – neve – tempeste – influenze – vacanze comprese, da gennaio fino a oggi. L’incontro con l’altro ti nutre e ti trasforma: è vero, giorno dopo giorno sto incontrando 365 sconosciuti, ma insieme sto contattando 365 parti di me, attraverso i loro sguardi, le loro storie e l’emozione che condividiamo. Credo sia questa l’essenza del progetto. La macchina fotografica è il solo mezzo che mi permette di rendere condivisibile l’incontro.
Come hai sviluppato e trasformato l’idea fino al primo ritratto?
E – Beh, è un’idea molto semplice, con (intenzionalmente) pochi limiti nello scattare. Davvero, non ho scuse, perché non c’è molto a cui pensare, devo semplicemente realizzare il mio ritratto!
D – Una volta avuta l’idea ho acquistato macchina fotografica e obiettivo, ricevuti il 24 dicembre, appena in tempo. Poi si è trattato di trovare il coraggio di incontrare e fotografare il primo sconosciuto. Al di là del supporto della mia compagna, che curerà la mostra in programma a Savona entro fine anno, ho trovato il coraggio e la forza necessarie in questo pensiero: «Tuffati, se perdi questa occasione rischi di buttare via un progetto di un anno». Mi sono tuffato e sto ancora nuotando.
Come mai scegli dei ritratti così ravvicinati, Davide, e ambientati, Emma?
E – Ho sempre amato i ritratti ambientati e il modo in cui si può capire – o indovinare, immaginare, inventare – tantissimo della persona ritratta dagli oggetti e dallo spazio che la circondano. Per molto tempo ho scattato fotografie piuttosto ravvicinate e mi stavo un po’ stancando di questo approccio. Volevo migliorare e diventare più sicura sui ritratti ambientati, così ho voluto appositamente farne tantissimi per questo progetto.
D – Non l’avevo deciso a priori, ma mi sono reso conto che gli scatti ravvicinati erano quelli che funzionavano di più. Esteticamente, ma non solo. Il modo migliore, fotograficamente e fisicamente, per entrare in contatto con l’altro, come cerco ogni giorno di fare, è farlo da vicino.
Testo e immagine: come conciliarli?
E –È una domanda trabocchetto? (ride) Alcune immagini funzionano perfettamente da sole, senza il testo, ma credo che i ritratti di persone normali spesso ricevano beneficio da qualche riga di testo, perché ci si sente curiosi di sapere chi siano. Il mio progetto è così una sorta di diario visivo e ha quasi la natura di un documentario, motivo per cui credo sia importante dire qualcosa di ciascuno, anche se è soltanto il nome e quello che stanno facendo in quel momento.
D – Credo si tratti di una complementarietà piuttosto naturale. Come per le inquadrature, ho cambiato in corsa: le prime descrizioni erano molto brevi e immediate; non ero abbastanza sereno per vivere gli incontri pienamente, come ha cominciato a succedermi a metà marzo. Ho capito che se la fotografia rappresenta un istante, la descrizione rappresenta un vissuto: le descrizioni di ciò che ho sentito prima, durante e dopo gli incontri credo li completino e diano più impatto alla fotografia.
Come avvicini i tuoi soggetti? Quali sono le reazioni più frequenti? È facile che rifiutino?
E – Semplicemente chiedo loro se li posso fotografare e spiego il progetto. Sono piuttosto amichevole e mi piace scambiare qualche parola: sono diventata amica di molti dei soggetti dei miei ritratti. Molte persone, semplicemente, dicono di sì. Alcuni si mostrano un po’ dubbiosi, ma poi accettano. Ho preso un sacco di rifiuti ormai, ma sono molto meno preoccupata di quanto non fossi all’inizio. In particolare non voglio mettere a disagio le persone, per cui non insisto se davvero non vuole farsi fotografare.
D – Dopo aver scelto lo stranger del giorno mi avvicino con cortesia, presentandomi e raccontando il progetto. A volte ricevo sorrisi accoglienti e da lì è tutto in discesa. Altre volte noto un po’ di sospetto, che però durante l’incontro cala, lasciando spazio alla sintonia necessaria per affidarci l’uno all’altro. Altre volte invece ricevo secchi e bruschi no: all’inizio facevano male, poi ho imparato che fanno parte del gioco. E della vita. E da alcuni mesi i rifiuti sono diminuiti drasticamente.
Rispetto ai primi scatti come si è evoluto il progetto e il tuo modo di fotografare? Cosa ti ha insegnato? Se potessi tornare indietro rifaresti qualcosa in modo diverso?
E – Beh, un altro dei miei scopi era sicuramente migliorare il mio modo di fotografare, diventare più sicura sui ritratti ambientati. Penso in parte di avercela fatta. Uno dei benefici delle pratiche quotidiane è poter esaminare la direzione in cui sto andando e, se sono finita in una sorta di routine, accorgermi di aver scattato per alcuni giorni di fila lo stesso tipo di ritratto e pensare a come fare per cambiare qualcosa. Se potessi tornare indietro inventerei Humans of London (ride). Non mi ero ancora imbattuta in Humans of New York quando ho cominciato il progetto. Mi piace moltissimo quel tipo di storytelling ritratto-con-intervista, e mi piacerebbe moltissimo realizzare qualcosa di simile, ma per questo progetto ho voluto mantenere una certa semplicità e poterlo seguire continuando con il mio lavoro e gli altri impegni.
D – Sono felice di come stano andando le cose. Se uno degli obiettivi dichiarati a gennaio era quello di migliorare nella tecnica, dopo 260 incontri posso dire di padroneggiare piuttosto bene gli aspetti fotografici. Nello specifico, ciò che non smette di affascinarmi è il comportamento della luce. Siamo il risultato di riflessi che ci colpiscono e rimbalzano su di noi e il nostro aspetto dipende anche da essi. Somiglia a un processo psicologico: ciò che siamo dipende anche da chi ci guarda. Gli inglesi dicono take a picture, prendere una foto, e ho imparato fin dai primi scatti che è vero, la foto non si fa, si prende. Tornando a casa dopo l’incontro osservavo lo scatto e rimanevo profondamente colpito da ciò che provavo, a volte commosso. Provavo affetto per ognuno di loro, come se mi avessero donato una parte di loro. Ho scoperto così che fotografare significa entrare in relazione, in contatto con le persone. L’ho sperimentato sulla mia pelle. O sulla nostra pelle.