Producono, divulgano, scelgono, stimolano. Le riviste letterarie italiane sono un mondo ricco e vivo: un luogo di incontro tra scrittura e pubblico, dove il racconto è un genere più vivo che mai. Come si forma la scelta di mettere in pagina un testo piuttosto che un altro? Ne parlano alcune tra le più note realtà contemporanee: ‘tina, Colla, l’inquieto, Il rifugio dell’ircocervo, Pastrengo, Carie Letterarie, Narrandom, Lahar Magazine.
Nell’Italia della crisi editoriale e dell’analfabetismo funzionale c’è una realtà che, contro ogni previsione, continua a crescere imperterrita: quella delle riviste letterarie indipendenti. È un mondo vasto e variegato, dove scrittori esordienti di ogni formazione o estrazione hanno la possibilità di pubblicare racconti, di interfacciarsi con un pubblico e di esercitarsi nel confronto con degli editori.
Le disparate riviste hanno alcune caratteristiche in comune: pubblicano principalmente racconti letterari, per la maggior parte di scrittori esordienti; la qualità dei contenuti e del lavoro redazionale è altissima, è difficile incontrare storie poco convincenti o refusi; gli editori lavorano gratuitamente, dedicando ingenti quantità di tempo a un progetto sostenuto solo dall’amore per la letteratura. Per il resto, i differenti progetti si distinguono in base al formato, al contenuto e all’idea che ci sta dietro. Alcune continuano a stampare su carta, altre esistono solo in formato digitale; alcune pubblicano racconti lunghi di minimo 20.000 caratteri, altre accettano pezzi di massimo 2.500. Alcune si sono trasformate in agenzie letterarie, altre in piccole case editrici, altre ancora affiancano alla pubblicazione dei racconti quella di approfondimenti, recensioni e saggi brevi sulla letteratura.
Negli anni ’90 le riviste erano molte meno. C’erano ‘tina, Maltese Narrazioni, Il paradiso degli orchi e Fernandel, e chi le conosceva faceva parte di una subcultura, dove ci si mandavano per posta riviste e racconti, e si sopravviveva grazie al passaparola. Negli anni 2000, con la diffusione su larga scala di internet, la trasmissione delle riviste è diventata molto più semplice: i progetti sono conseguentemente aumentati e hanno assunto sempre più visibilità. Oggi l’universo che vi gravita attorno continua a essere di nicchia, quello che è cambiato, piuttosto, è il riconoscimento da parte dell’ambiente editoriale. È diventato infatti più comune leggere nelle biografie degli scrittori esordienti le riviste sulle quali hanno già pubblicato racconti; festival letterari come Book Pride, Bookcity Milano e il Salone internazionale del Libro di Torino vi dedicano incontri esclusivi; riviste e magazine se ne occupano nei loro articoli, così come è possibile trovare podcast che ne raccontano la storia, la diffusione e le particolarità.
Il maggior riconoscimento da parte dell’ambiente editoriale e del pubblico è però un’arma a doppio taglio, poiché più le riviste diventano popolari, più persone mandano racconti, e naturalmente più diviene complicato venire pubblicati, per le scrittrici e gli scrittori, o scegliere quali racconti pubblicare, per le redazioni. Con le riviste letterarie sono cresciute anche le scuole di scrittura, e gli strumenti dell’arte di scrivere sono sempre più accessibili. Eppure, talvolta, saper scrivere bene non basta. Ma quando il talento non è tutto e a saper scrivere sono sempre più persone, cosa fa la differenza? Perché alcuni racconti, magari a parità di livello nell’esecuzione, vengono pubblicati e altri no? In poche parole, cosa rende un racconto un bel racconto?
Lo abbiamo chiesto direttamente agli editori di alcune tra le riviste più riconosciute del panorama italiano. Qui di seguito le loro risposte:
Non so cosa sia “un buon racconto”, so cosa conquista me.
Intanto, la lingua: una prosa retorica, ampollosa, mi infastidisce al volo. Cerco testi vivaci, con una buona resa del parlato, con termini presi dalla cultura pop quanto da dialetto. Cerco la vita reale, dentro. La storia, il plot, mi interessa meno: a volte anche una singola scena, raccontata bene, può essere sufficiente.
In sintesi, agli scrittori io dico: mi fido, portami dove vuoi, basta che tu mi sappia condurre.
Una voce narrante che suoni naturale (l’enfasi è il peggior nemico, la coerenza il miglior alleato). Un’organizzazione efficace di vocaboli, immagini e proposizioni, che tenga conto della quantità limitata di attenzione a disposizione del lettore.
L’intensità che si ottiene assegnando a ogni frase un compito preciso (informare e emozionare, non serve altro). Una caratterizzazione dei personaggi funzionale allo sviluppo dell’idea principale. La capacità di cogliere le contraddizioni della realtà.
Per quanto riguarda la selezione dei racconti, guardiamo molto all’originalità della scrittura, sia degli autori di cui abbiamo letto raccolte e che contattiamo direttamente, sia degli invii spontanei che ci arrivano. La trama, nei nostri criteri di valutazione e di gusto, è sempre un passo indietro. Più in generale, un buon racconto, deve creare un’atmosfera e quello definirei un “umore”, ma non riuscirei a essere più preciso a riguardo. I miei preferiti sono quelli che mi creano un profondo senso di invidia, e che mi fanno pensare: “Questo lo avrei proprio voluto scrivere io”.
Urgenza in primis: il racconto dev’essere dettato da un’impellenza che gli dia senso d’esistere. Originalità: non per forza nel cosa, ma soprattutto nel come si narra (contenuti, voce, struttura, ecc.). Personalità e cura stilistica: saper padroneggiare la lingua, evitando sia formule banali sia virtuosismi fini a se stessi. E poi: ritmo, scorrevolezza, autenticità, presenza di una chiusura sensata, assenza di egocentrismi e di smania di stupire. Un buon racconto deve essere rivelatore, epifanico.
Ovviamente, non c’è una ricetta per costruire un bel racconto. Nel caso dei racconti che selezioniamo e pubblichiamo sulla nostra rivista, caratterizzati dall’estrema brevità (massimo 2500 battute), ci sono due elementi a cui prestiamo particolare attenzione: l’idea di partenza e la ricerca stilistica. La forma breve può essere infatti il terreno ideale per sperimentare, osare e cercare di piazzare l’asticella un po’ più in alto.
Creare un personaggio, metterlo in difficoltà, farlo reagire. Un buon racconto è un collage di tantissimi pezzi. Incipit, punto di vista, voce narrante, scene, stile. Ci vuole un equilibrio fra tutti questi pezzi e l’insieme non deve sembrare artefatto. A noi di Carie a volte basta uno soltanto di questi tratti, originale e coraggioso, per innamorarci di un racconto. C’è un senso di appagamento nel leggere un racconto riuscito. Nasce dal tentativo dello scrittore di dare un senso agli avvenimenti del racconto. Ciò che nella vita spesso è impossibile.
Perché un racconto sia scelto da noi di Narrandom deve prima di tutto stupirci, ed è importante che possa raggiungere più lettori possibile; in secondo luogo è importante anche il trasporto emotivo che suscita, e la qualità tecnica con cui è realizzato. Se tutti questi elementi si amalgamano tra loro ecco che otteniamo un ottimo racconto!
Un buon racconto deve iniziare bene e finire meglio. L’arco narrativo va rispettato: l’incipit è un manifesto, una promessa, da mantenere ad ogni riga. Uno stile netto e dichiarato, senza cambi di modalità che non fanno bene a nessun racconto. Bisogna dire poco, come la punta di un iceberg, mostrare senza dire. Sai che sotto c’è una massa enorme, è scontato. Lo si intuisce. Per scrivere un bel racconto, infine, serve sentirlo, viverlo con vivida immaginazione anche se non lo si è vissuto realmente. Così può uscire qualcosa di buono dalla penna.