Settantotto fotografie raccontano il grande fotografo ungherese durante la guerra in Italia: scarponi infangati, sigaretta in bocca, e faccia da schiaffi. E basta?
Si presume che l’uomo sia in grado di imparare dai propri errori e che dunque tali errori vadano tenuti vivi nella memoria collettiva, a partire dall’infanzia. È per questo che ai posteri si insegnano le guerre: per (sperabilmente) non farle mai più ingaggiare. Se quelle degli ultimi due secoli le si raccontasse tramite le immagini scattate dai coraggiosi fotogiornalisti che vi hanno preso parte, l’apprendimento sarebbe forse più immediato?
Il primo nome che salta in mente unendo parole come “fotogiornalismo” e “guerra”, e che meriterebbe di affollare con le sue immagini i libri di testo di storia – oltre a quelli di storia della fotografia – è indubbiamente Robert Capa, nato poco più di cent’anni fa (1913) a Budapest con il nome di Endre Friedman. Lui, che ha documentato i cinque maggiori conflitti mondiali – dalla guerra civile spagnola alla prima guerra d’Indocina, che, nel ‘54, gli fu fatale – ci è sempre andato «abbastanza vicino» da farne sentire il sapore anche a chi ne era lontano, sia nello spazio, sia poi nel tempo.
Allo Spazio Oberdan di Milano, le 78 fotografie di Robert Capa in Italia, 1943-1944 illustrano un anno della seconda guerra mondiale, a partire dallo sbarco in Sicilia fino alla battaglia Montecassino, con uno sguardo così presente e un punto di vista così interno che lo spettatore vi si sprofonda. Pare d’essere sull’aereo in viaggio dalla Tunisia alla Sicilia il 9 luglio ’43, insieme ai paracadutisti americani: hanno gli occhi chiusi, forse stanno pregando che tutto vada per il meglio e di tornare a casa per raccontarlo, o forse sono solo a caccia di un po’ di riposo. Sembra di accompagnare le truppe degli Alleati a bordo delle jeep che attraversano Monreale, mentre i Siciliani liberati si allungano a dare il benvenuto e stringere loro la mano.
Tra queste fotografie si possono rintracciare, attraverso uno sguardo semplice, vicino e intimo – e, nonostante questo, discreto – le due anime della guerra: da un lato la cautela e l’adrenalina dei soldati che si spostano tra boschi e colline, pronti a sparare al nemico che cercano con il binocolo, dall’altro il momento del rancio e del riposo, al riparo di qualche casolare come quello di Fort Schuster o di qualche buco di trincea. Ci sono i volti tesi dei giovani, biondi militari tedeschi fatti prigionieri dagli americani, così diversi da quelli per un attimo sereni di due autiste d’ambulanza, che fanno a maglia e parlano di una quotidianità che si è trasformata. I corpi ancora caldi dei caduti per un proiettile o un bomba stanno tra una sigaretta e l’altra fumata in una Chiesa, ora ricovero di fortuna per i feriti. «Erano immagini molto semplici. Mostravano quanto in realtà fosse noiosa e poco spettacolare la guerra», disse Capa. Oggi non ci sembrano affatto noiose, ma rimane importante non costruire nuovi miti con queste immagini di guerra.
Una sintesi della povertà dell’Italia, dei segni dell’ideologia fascista, della prepotenza della Germania e infine del pragmatismo americano, che per un attimo fece dubitare anche uno come Robert Capa. «Pensavo che non avesse alcun senso questo combattere, morire e fare foto, quando il generale Teddy Roosevelt, sempre presente dove la battaglia era più dura, si avvicinò e puntò il bastone verso di me: “Capa, disse, al quartier generale di divisione c’è un messaggio per te. Dice che sei stato assunto da Life”». Era l’agosto del ’43. Il suo lavoro non era poi così inutile.
A guardarlo in quella fotografia che apre la mostra, scattata a Napoli da George Rodger nello stesso anno, vestito come un militare americano – gli scarponi infangati, la sigaretta in bocca e la faccia da schiaffi – quel fotografo ungherese ricorda più un attore alla James Dean che un testimone della storia da cui imparare una lezione importante, eppure…
“Robert Capa in Italia – 1943-1944″, Spazio Oberdan, fino al 26 aprile
Foto: Robert Capa, Soldato americano in perlustrazione nei dintorni di Troina, 4/5 agosto 1943. © International Center of Photography/Magnum – Collection of the Hungarian National Museum