All’Osservatorio Prada, in Galleria Vittorio Emanuele, è in scena una mostra personale dell’artista e fotografo norvegese Torbjørn Rødland (1970): più di quaranta opere fotografiche e tre video realizzati tra 1999 e 2016. L’esposizione, già presentata da Serpentine Galleries a Londra, è curata niente meno che da Hans Ulrich Obrist con Amira Gad.
La comprensione estetica della mostra di Torbjørn Rødland, The Touch That Made You, esposta fino al 20 agosto presso l’Osservatorio Prada, in Galleria Vittorio Emanuele, si manifesta chiara opera dopo opera, esattamente come una fotografia analogica lascia emergere lentamente l’immagine impressa, in fase di sviluppo
Il supporto materico delle fotografie di Torbjørn gioca un ruolo centrale per tutta la mostra, il cui allestimento si piega alle necessità conservative di carte altamente fotosensibili.
“The touch that made you” è il tocco della luce che imprime le forme, ma è anche quello tattile relativo alla grana della carta usata per lo sviluppo, come pure quello presente e potente del pensiero e persino un toccare fisico dei corpi, che sembra essere la linea sottile conduttrice di tutta l’esposizione.
Sulle note elettroniche della band Sex in Dallas, la videoperformance I am Linkola è curata nel dettaglio come fosse un corto d’autore e ci porta davanti all’alba di un nuovo giorno. Ci si risveglia ogni giorno, con l’illusione di un senso di novità, perché dopotutto ogni giorno è un giorno nuovo. O forse no.
Il cerchio appare l’elemento dominante ed esprime il concetto cardine di ciclicità. Un cerchio può essere inteso come margine, limite. Così, circolare come le pupille che imprigionano lo sguardo, un’isola imprigiona la voglia disperata tutta adolescenziale di una giovanissima ragazza alle prese con i tormenti d’amore.
Probabilmente desidera fuggire, giocarsi le proprie carte, esplorare l’ignoto. Ma il viaggio è ciclico come può esserlo un volante, se non si ha una direzione e sterzando, senza nemmeno guardare la strada, traducendo i pensieri che probabilmente le si affastellano in testa, l’auto disegna un cerchio sulla sabbia. Il viaggio si arena nella disperazione di un senso di isolamento forzato, in cui l’unica via di fuga risulta essere probabilmente la rinuncia alle stesse possibilità di giocarsi i propri desideri, giorno dopo giorno.
L’esposizione prosegue e l’attenzione si posa su opere apparentemente rozze, come Drunken man, in cui l’allusione a Dioniso e ai riti orgiastici è a fior di sguardo. Seni nudi giovanissimi, appena pronunciati sotto a magliette leggere, in contrasto stridente con l’opulenza di una virilità ormai sfiorita, allo sfascio, in un primo piano di pancia e peli.
Con This is my body si osserva l’ambiguità tra il rito religioso cristiano e qualcosa che non sappiamo bene se è giusto che stia per succedere: un dito portato in bocca a una bambina, come fosse il gesto consueto dell’eucarestia.
Ma il desiderio dissacrante è tangibile e ci si interroga come mai si resti così spiazzati da una carica erotica che sfocia al limite della pedofilia e che tuttavia gioca sul filo di lana tra ciò che è e ciò che vogliamo vedere, portando con sé un segreto che nessuno potrà mai cogliere.
Potrebbe essere la tenera scena di due fratelli che si stanno salutando per un commiato, perché magari lui sta andando al college? Chi può dirlo. Eppure il richiamo erotico è fortissimo e ci stuzzica in una direzione che sembrerebbe confermata da una fotografia come Red Pump: una scarpa rosso fiammante, con tacco a spillo infilato nell’apertura dei pantaloni.
O ancora, la possibile colpa che traspare sul volto arreso dell’anziano tenuto per il colletto della camicia da un giovane a torso nudo. I corpi spinti sul proscenio annientano ogni profondità dello spazio che si ribalta su di noi, guardandoci dritto negli occhi e coinvolgendoci così quali protagonisti della scena osservata, in cui ciò che sta succedendo è solo provocazione.
Il gioco di tensioni dell’esposizione è altissimo, i dettagli restituiscono lo stereotipo di mascolinità e femminilità laddove le immagini evitano di fatto il didascalico.
È difficile non restarne irretiti, non sentirne la densità. Le immagini si susseguono in un climax che si scioglie solo nel finale del percorso dove, quasi a ribadire l’importanza del concetto di ciclicità, ritroviamo una nota di tenerezza in Comb over: due chiome di capelli che si intrecciano, in una tenerezza sincera, vera, che sembra quasi suggerire una sorta di abbraccio e dove sembra che i pensieri si scambino affinità e affetto, esperienza, amore e senso di protezione elettivo, senza bisogno di altro.
Non si esce leggeri come quando si è entrati, è impossibile. The Touch made us.
Immagine di copertina: Immagine della mostra. Foto Andrea Rossetti. Courtesy Fondazione Prada. Torbjørn Rødland, Hands and Eyes. Portrait no.4, 2008-2010; Hands and Eyes. Portrait no.2, 2008-2010; Hands and Eyes. Portrait no.3, 2008; Hands and Eyes. Portrait no.1, 2008-2010; Hands and Eyes.Portrait no.5, 2008-2010.