“Il poeta è un fingitore”, scriveva Fernando Pessoa. E un grande fingitore era anche Romain Gary: ripercorriamo la storia di questo grande romanziere francese e delle maschere che ha indossato per scrivere romanzi
Il 17 luglio 1981, quando Gallimard pubblica Vita e morte di Émile Ajar (lo propone adesso in Italia per la prima volta Neri Pozza, traduzione e postfazione di Riccardo Fedriga), il giovane e sconosciuto scrittore che sei anni prima, nel 1975, aveva vinto il premio Goncourt con l’opera seconda La vita davanti a sé tace da più di due anni. E il grande romanziere che gli ha prestato la parola inventando per lui un nuovo stile è morto da quasi un anno.
Prima di quell’exploit, Ajar aveva pubblicato nel 1974 un romanzo insolito a quelle compassate latitudini, Mio caro pitone, che con una lingua sghemba e stralunata, zeppa di storpiature gerghe, quella che farà poi la grandezza e la fortuna della Vita davanti a sé, raccontava del mite e solitario Cousin, impiegato in un ufficio di statistica con il papillon giallo a pastiglie blu che non osa corteggiare la nera mademoiselle Dreyfuss, va a farsi coccolare da un gruppetto di puttane dal cuore d’oro che gli dicono povero caro e, per non essere “un uomo con nessuno dentro”, di ritorno da un viaggio in Africa si porta in casa un pitone lungo due metri e venti.
Dopo quell’exploit, Ajar darà alle stampe altre due opere: Pseudo del 1976, in cui, scrive Fedriga, «teorizza una vera e propria poetica del “fare pseudo”, cioè diventare un personaggio che non si appartiene mai, inafferrabile, sempre altro sia a se stesso sia da se stesso» (e nessuno si insospettisce), e L’angoscia del re Salomone del 1979, in cui il vecchio ebreo Salomon Rubinstein, re dei pantaloni, trovando che «il mondo è sempre più difficile da portare», fonda Sos Benevoli, un’associazione che aiuti gli afflitti e i diseredati.
Uomini soli e angosciati, cani perduti senza collare, gente in cerca di un aiuto o di un affetto. Come l’indimenticabile Momo di La vita davanti a sé. «Per prima cosa vi posso dire che abitavamo al sesto piano senza ascensore e che per Madame Rosa, con tutti quei chili che si portava addosso e con due gambe sole, questa era una vera e propria ragione di vita quotidiana, con tutte le preoccupazioni e gli affanni. Ce lo ricordava ogni volta che non si lamentava per qualcos’altro, perché era anche ebrea. Neanche la sua salute era un granché e vi posso dire fin d’ora che una donna come lei avrebbe meritato un ascensore».
Ve lo ricordate, l’incipit? Converrà ricordarlo, come converrà ritornare su questo romanzo, che consacra un autore nuovo e fittizio, nasconde un autore vecchio e reale e mette in scena la beffa letteraria meglio congegnata e più riuscita del Novecento.
La vita davanti a sé – il capolavoro di Romain Gary, oggi lo sanno tutti – racconta l’amore che lega il ragazzino Mohammed detto Momò, figlio di una prostituta uccisa dal suo ruffiano, alla vecchia e monumentale ebrea Madame Rose, ex puttana ed ex deportata ad Auschwitz, che a Belleville ha trasformato la sua casa al sesto piano in pensione per i “figli di puttana”.
In questo libro perfetto, in questo romanzo toccato dalla grazia, in questo impasto straordinario di sordido e sublime narrato in una prima persona che è un vertiginoso tritatutto di idee altrui, frasi e concetti storpiati o adattati, esperienze assimilate senza mediazioni, brutalità riportate con candore, bisogno di affetto, sguardo penetrante di chi ha imparato la vita anzitempo, Gary (ma allora tutti erano convinti che si trattasse del giovane e sconosciuto Émile Ajar) inventa un mondo e un linguaggio.
L’avrete senz’altro letto, se non l’avete fatto date retta, leggetelo e, all’improvviso, tutti i romanzi dell’amabile Daniel Pennac vi sembreranno acqua fresca, con la Francia dura e solidale del quartiere multietnico di Gary stemperata in blanda eccentricità.
Il piccolo Momò, quattordicenne che crede di avere dieci anni, Pollicino intrepido nella foresta della città, con i suoi aiutanti fatati e i suoi piccoli amici reali o immaginari (il cane che vende per assicurargli una vita migliore, buttando i soldi ricavati in un tombino; l’ombrello Arthur; il pagliaccio blu; la leonessa che lo viene a visitare nel sonno), con la sua ricerca di padri (il venditore di tappeti signor Hamil, algerino quasi cieco che gli infonde la sua saggezza e gli fa scoprire Victor Hugo; il vecchio medico ebreo dottor Katz) e i suoi vicini solidali (il mangiafuoco Waloumba, i quattro erculei facchini fratelli Zaoum, il magnaccia dandy N’Da Amédée, il travestito senegalese ed ex pugile Madame Lola), è il figlio ideale e devoto di Madame Rose, che assiste quando la vecchiaia si fa malattia, quando la morte è in agguato e l’ospedale-lager è una minaccia concreta (straordinarie le pagine sul diritto di scegliere la propria morte senza essere medicalizzati). Le starà accanto, la nasconderà nella cantina (“l’angolo ebreo” di Madame Rose), veglierà il suo corpo per settimane lottando allo stremo per negare quella morte. Per essere infine adottato da una doppiatrice e da un medico che lo avevano preso a benvolere.
«Quando hanno sfondato la porta per vedere da dove veniva il fetore e mi hanno visto sdraiato a fianco di lei, si sono messi a strillare: “Aiuto, che orrore”, ma prima non ci avevano pensato a strillare perché la vita non ha odore. Mi hanno trasportato in ambulanza dove mi hanno trovato in tasca il pezzo di carta col nome e l’indirizzo. Vi hanno chiamato perché ci avete il telefono, avevano creduto che foste qualcosa per me. È stato così che siete venuti tutti e che mi avete preso con voi in campagna senza nessun obbligo da parte mia. Io penso che avesse ragione il signor Hamil quando ci aveva ancora tutta la testa e che non si può vivere senza nessuno da amare, ma non vi prometto niente, bisogna vedere. Io ho amato Madame Rosa e continuerò a vederla. Ma voglio lo stesso restare con voi un certo tempo, visto che sono i vostri marmocchi a volerlo. È stata la signora Nadine che mi ha fatto vedere come si può fare a far andare il mondo all’indietro e la cosa mi interessa molto e la desidero con tutto il cuore. Il dottor Ramon è andato perfino a prendere il mio ombrello Arthur, mi facevo del cattivo sangue perché nessuno ne avrebbe voluto sapere a causa del suo valore sentimentale, bisogna voler bene».
La giuria del Goncourt grida al miracolo, consacrando il nuovissimo Ajar. Ne viene tratto un film con Simone Signoret che due anni più tardi vincerà l’Oscar. Qualcuno, vecchi amici dello scrittore per lo più, avvisa che è, che può essere opera sua, di Romain Gary: ci sono giri di frase che ritornano, tic espressivi, situazioni, gesti, personaggi che con nomi diversi e in diverse circostanze sono già apparsi in altre sue opere. Il comitato di lettura della Gallimard, i critici parigini più blasonati dicono in coro che non può essere, che Gary è un cavallo sfiancato alla fine della corsa, un “biglietto scaduto” come dice il titolo di un suo romanzo di quello stesso anno che mette in scena la vecchiaia angosciata e priva di grazia di chi è stato molto giovane, molto bello e molto playboy. Insomma un limone spremuto, un vecchio scrittore già molto osannato che non ha più niente da dire, che non vale più la pena di leggere. Da rileggere al massimo, dicono i più generosi, ma non lo rilegge nessuno dei lettori di professione, e gli indizi continuano ad accumularsi inascoltati.
Così, in quel 1975 di creduloni, Émile Ajar è un espatriato in Brasile (il manoscritto di La vita davanti a sé, Gary ha pensato proprio a tutto, è arrivato per posta aerea da Rio de Janeiro) che non può tornare in patria perché ha pendenze con la giustizia francese. Poi, complice un’avvocatessa di grido, diventa il nom de plume di un terrorista libanese. Infine si incarna in Paul Pawlovitch, cugino di secondo grado di Gary che asseconda lo scrittore nel suo gioco perfido. Anche allora, anche di fronte a quella parentela, in pochi sospettano. Romain Gary nega sempre la paternità di quella e delle altre opere di Ajar, e ai giornalisti e ai professori di provincia che con acribia hanno “riletto” e nnotato coincidenze e somiglianze (ma non ai critici, nessuno di loro avrà un soprassalto), ribadirà, recitando la parte del vecchio magnanimo, che è giusto che un giovane scrittore echeggi, rubacchi, si lasci suggestionare, chi è lui per aversene a male?
In quel 1975 di trionfo sotto mentite spoglie in cui vince il Goncourt per la seconda volta (ed è un premio che, per statuto, si può vincere una volta sola nella vita) Romain Gary ha sessantun anni, avverte la solitudine e sente, come la protagonista della Vita davanti a sé, la vecchiaia aggredirlo. Cinque anni dopo, il 30 novembre 1980, si ucciderà con un colpo di pistola dopo avere acquistato un accappatoio rosso per non sporcare e aver lasciato un biglietto laconico («Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove»: l’ex moglie era stata trovata morta, nuda e con un tasso alcolico altissimo, sui sedili posteriori di una macchina un anno prima). Poco meno di un anno dopo la sua uscita di scena, con Vita e morte d Émile Ajar, si apprenderà che Ajar era lui. E che non era il solo pseudonimo che avesse adoperato in vita. Era stato anche l’italiano Fosco Sinibaldi e il giallista turco Shatan Bogat, proprietario in India di una flotta di pescherecci.
Il suo stesso nome, Romain Gary, era in realtà lo pseudonimo di Romain Kacev, un ebreo lituano nato nel 1914 a Vilnius dalla modista e sedicente attrice Mina Iosselevna Borisovskaia e dal pellicciaio Arieh Kacev. In un libro bellissimo del 1960, La promessa dell’alba, Kacev-Gary rievocherà questa madre mitomane e ipervolitiva, questa idea platonica di yiddische mame che preconizza al figlio un avvenire glorioso di statista, di artista di rango mondiale, di uomo di genio, lui che è in realtà figlio naturale di Ivan Musjoukine, il più celebre divo del muto assieme a Rodolfo Valentino.
E Gary, visto che sua madre lo proclama figlio di tanto padre e destinato al trionfo, ci crede e si immedesima, decide di assecondarla e di vivere la sua vita come una corsa a ostacoli. E come una recita, come una finzione. Del resto Mina Iosselevna, che a Nizza fa la fruttivendola e poi apre una pensione, arriva mettere sotto assedio il re di Svezia in persona, turista di rango in Costa Azzurra, perché faccia impartire al figlio adolescente, spacciato per un campione, lezioni gratuite di tennis, riuscendoci. Dalla madre, dal suo amore ostinato e pieno di attese, Gary imparerà come si fa a uscire di scena quando, finito l’addestramento militare, scoprirà che lei è già morta da un anno e ha fatto spedire al figlio una lettera al giorno, lettere scritte in anticipo, perché lui non provasse angoscia e non si distraesse.
Chi è destinato alla gloria a volte raggiunge la gloria, il proteiforme Gary è tra questi: aviatore decorato al valor militare, combattente contro i tedeschi agli ordini del generale de Gaulle, Compagnon de la Liberation, console di Francia a Los Angeles, scrittore osannato fin dal suo esordio (L’educazione europea, 1945, per Sartre il più bello fra i romanzi dedicati alla Resistenza), insignito del primo Goncourt nel 1956 con Le radici del cielo da cui John Huston ricaverà due anni dopo un film. E poi corteggiatore di bellissime donne, ne sposerà due, la scrittrice e forse agente inglese Lesley Blanch e la bellissima americana Jean Seberg, la studentessa traditrice che manda a morire il balordo Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro di Godard. E poi viveur, viaggiatore, regista, camaleonte, scrittore prolifico, fino al lento declino.
Che cosa spinge Gary a inscenare il gioco dello “pseudo”, a tornare in scena e a vincere nei panni di un altro? La volontà maligna di smascherare l’ottusità dell’establishment letterario? Il gusto tutto infantile di “vedere di nascosto l’effetto che fa”? Lui dice la voglia di essere libero, di essere altro, di tornare giovane e di provare, ancora una volta, “la prima volta”.
Diventa così vero, nella finzione letteraria, ciò che non può più essere vero nella vita. E il giovane Momo che ricorda che «non si può vivere senza nessuno da amare» riecheggia l’impiegato Cousin che vive con il pitone: «So anche che esistono amori reciproci, ma io non vado in cerca del lusso. Qualcuno da amare è un genere di prima necessità». Saranno i suoi personaggi, sarà la voce dell’autore che parla attraverso di loro?
In quella recita sincera, in quella finzione vera che è la letteratura anche Romain Gary sa, come sapeva l’uomo-orchestra Fernando Pessoa con i suoi venti e passa eteronimi, che «il poeta è un fingitore/ finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente».
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