Fino al 10 marzo 2024, Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’art contemporain presentano la prima personale in Italia dell’artista australiano Ron Mueck, con una selezione di opere mai esposte prima in Italia. Una mostra ricca di suggestioni e spunti di riflessione, com’è consueto con un artista che attraverso la figurazione iperrealista raggiunge le corde più profonde dell’animo e dell’esistenza umana. Opere monumentali e minuscole si alternano in un vibrante contrappunto, accompagnate da due intensi film del fotografo e regista francese Gautier Deblonde che ci avvicina alla pratica meditativa e paziente di uno dei massimi artisti del nostro tempo.
Le sculture di Ron Mueck, piccole o grandi che siano, si offrono allo sguardo con una potenza disarmante nel modo in cui costringono lo spettatore a riflettere su ciò che egli osserva. La mostra – organizzata da Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’art contemporain, il cui direttore Hervé Chandès firma la curatela – rivela un’evoluzione nel percorso creativo dell’artista, suggerendo quasi una cesura tra le prime opere e quelle più recenti, senza tuttavia negare il filo comune che le unisce: il confronto incessante e inquietante con la vita stessa.
La prima scultura che incontriamo lungo il percorso espositivo è In Bed (2005): una donna, di dimensioni imponenti, stesa in un letto con una mano appoggiata delicatamente sulla guancia. Un piumone copre il corpo, altrimenti nudo, della donna, mentre lo sguardo, rivolto altrove, sembra perso nei suoi pensieri e inconsapevole, forse anche incurante, della presenza dello spettatore. Se da una parte ci troviamo nella posizione voyeuristica di chi osserva un momento privato e altamente intimo, dall’altra ci viene negato un accesso totale all’interiorità della donna. Osserviamo dall’esterno senza conoscerne i pensieri. Simili sensazioni vengono suscitate da altre opere in mostra, come Woman with Sticks (2009), in cui una minuscola donna nuda tiene tra le braccia un insieme di ramoscelli, il cui peso la costringe a inarcare la schiena all’indietro. Lo sguardo della donna sembra essere tutto assorto nel suo lavoro, nella fatica che comporta. Queste sculture ci si presentano con una vulnerabilità insolita, in aperto contrasto con le loro dimensioni. Essa è in parte suggerita dalla presenza del corpo nudo, che ci inserisce già da subito in una relazione intima con queste donne. Eppure, l’apparente non curanza che esse manifestano nei nostri confronti ci relega in una dimensione altra. Siamo separate dalle nostre rispettive interiorità. Gli sguardi introiettati di queste sculture ci allontanano, mentre il loro corpo ci avvicina. Per quanto si possa sforzare, lo spettatore deve fare i conti con la frustrante impenetrabilità del sentimento.
Con Mass (2017) assistiamo a una svolta nel lavoro di Mueck: le precedenti opere dell’artista erano imperniate sul concetto di individualità, sulla raffigurazione di singoli esseri umani colti nei momenti più intimi e più svariati. Con questo imponente gruppo scultoreo (ben cento enormi teschi) sembra che l’attenzione dell’artista si sposti sulla raffigurazione di una pluralità di soggetti. Secondo Mueck “allo stesso tempo familiare ed esotico, il teschio disgusta e affascina contemporaneamente. È impossibile da ignorare, richiede la nostra attenzione a un livello subconscio”. Questo macabro soggetto, dunque, sembra raffigurare ciò che sappiamo esistere, ma preferiamo tenere alla larga; almeno finché non siamo costretti a prestargli attenzione. Il percorso osseo che questi teschi formano ci costringe a riportare alla mente la morte. Ovunque ci giriamo non riusciamo a scampare a questi terribili reminder; una specie di memento mori? Il titolo dell’opera dà luogo a una molteplicità di interpretazioni, poiché il termine inglese mass può riferirsi sia a un cumulo disordinato sia a una folla o anche a una cerimonia religiosa. Cosa è successo e cosa ha dato luogo a questa fossa comune? Mueck non dà spiegazioni; rimangono solo le ossa, testimoni silenti della vita che non c’è più. La cesura tra le opere più vecchie e quelle più recenti, tra l’individualità e la molteplicità pone nuovi interrogativi sulla nostra condizione.
En Garde (2023) raffigura tre enormi cani neri. Sembrano minacciosi nella loro postura come se non ci fosse permesso superarli. Sono guardiani? Forse custodi di un tesoro che non ci è dato vedere? O forse l’en garde del titolo si riferisce allo spettatore: stiamo attenti, perché basta un attimo che questi tre mostruosi esseri, per certi versi memori del Cerbero infernale, ci sbranino.
In This little Piggie (2023), opera ancora in corso, invece, da potenziali vittime diventiamo spettatori di una violenza. Un gruppo di uomini cerca penosamente di immobilizzare un enorme maiale. Un atto faticoso che richiede uno sforzo di gruppo, rispecchiato nella dinamicità dei movimenti di queste persone. Sembra la raffigurazione di una società preindustriale e rurale, che, tuttavia, ha forti implicazioni per la vita contemporanea. This little Piggie forse ci rivela qualcosa che nella società contemporanea abbiamo dimenticato: nella violenza e nella necessità gli esseri umani sono complici e di questa complicità ci toccherà assumerci la responsabilità.
Ron Mueck, Triennale Milano, fino al 10 marzo 2024
In copertina: Ron Mueck, In Bed, 2005, Collection of the Fondation Cartier pour l’art contemporain, foto ©Patrick Gries