Nel suo settantesimo Sandro Gorli, direttore d’orchestra e infaticabile organizzatore e divulgatore di contemporanea, fa il punto su mezzo secolo di musica ricordando i suoi trascorsi con Maderna e Berio ma anche riflettendo su cosa significa comporre nel Duemila
Il Divertimento Ensemble lavora e lotta sulla scena della musica contemporanea da quarant’anni. I programmi 2018 portano già il numero quarantuno. Rondò, la stagione che il Divertimento Ensemble organizza a Milano – 24 concerti e incontri, dal 14 gennaio al 12 settembre, fra Museo del Novecento, Teatro Litta, Fabbrica del Vapore, Palazzina Liberty, Galleria d’Arte Moderna, Auditorium San Fedele – compie 15 anni. E la matassa degli anniversari non si ferma qui.
Anche al suo direttore il 2018 riserva un compleanno d’importanza.
Sì (ride), così mi dicono.
Partiamo da qui, e non per gossip ma perché 70 anni concedono a Sandro Gorli uno sguardo su quasi mezzo secolo di musica. Gli snodi cruciali?
Non facile sintesi. Posso dire che cosa è successo nell’evoluzione linguistica, ma non saprei attribuire anni precisi. Da che sono attivo, dal ‘ 69-70, partiamo da una concezione strutturalista fortemente dominante. Penso a Boulez e, per quel che mi riguarda, Donatoni, che è stato mio maestro di composizione. In questo contesto si è poi affacciato il dubbio dell’alea, dell’indeterminazione. È seguito un corso neotonale, in cui una corrente di compositori ha cercato di riaffermare un linguaggio legato a un tentativo che nasceva da una preoccupazione legittima, riavvicinare un pubblico che si stava allontanando, o che sembrava troppo lontano. Ma era un tentativo contro la storia.
Impossibile usare la tonalità per un compositore contemporaneo?
Non in quel modo, come recupero integrale della forma. Ripeto, si partiva da una considerazione semplicistica: la gente va all’opera ad ascoltare Puccini, torniamo a quella forma e riempiremo le sale. Si sono scritte opere “pucciniane”, ma sarà ben meglio l’originale che una copia, magari brutta. Questo non si può fare, è un tornare indietro. Castiglioni, che in questi giorni stiamo provando, usa triadi maggiori e minori, intervalli consonanti, quinte, ma non è un recupero della tonalità, è un uso più libero di materiale tonale. Lo fece Donatoni, lo fa Kurtag.
Lo stesso Maderna.
Sì, citazioni melodiche e più eufoniche. Ma un recupero della tonalità nella nostra musica, no.
Dobbiamo considerare che la melodia e la tonalità abbiano cambiato stanza e basta?
È migrata altrove, per altri scopi. Continua a vivere, naturalmente; la musica leggera la utilizza, e anche quella non sempre. Anche la musica da film, che dovrebbe essere quanto mai comunicativa, non sempre ne fa uso: ci sono film bellissimi non commentati da musica tonale. Poi c’è stato un momento in cui si è dovuto tenere conto dell’alea, dell’indeterminazione.
Già, ma John Cage in Italia è stato prima ignorato e poi anche deriso. Ricordo note di sala, in Musica nel Nostro tempo, ch’erano insulti. Era un po’ il destino di Cage, ma comportò anche ritardi nella consapevolezza della musica italiana.
L’accademia non l’ha capito, non l’avanguardia di allora. Donatoni stesso ne ha tenuto conto. Di Cage da una parte e di Freud dall’altra, rendendosi conto che l’autore non determina più tutto, come nell’Ottocento, ma ci sono cose che nel pensiero dell’autore arrivano incontrollate, e delle quali si tiene conto inconsapevolmente. Shakespeare diceva che ci sono più cose nella realtà che nella fantasia. Perché anche la fantasia è una dimensione mentale dell’uomo, la realtà è tutto quel che accade attorno senza nostro controllo. Ricordo un dialogo fra Berio e Maderna, citato in un libro; stavano lavorando a un Divertimento a quattro mani. E uno dei due ammetteva: “guarda, c’è più fantasia in questo processo spontaneo che nella mia testa”. L’inconscio e l’alea sono stati determinanti nello sviluppo della lingua musicale, hanno fatto fare salti alla creatività.
Nel sospetto che l’Europa ha sempre nutrito verso l’America, né Sandro Gorli né il Divertimento Ensemble sono profondamente coinvolti. Nella sua biografia viene citata la prima esecuzione italiana della Low Symphony di Philip Glass…
Fu un caso: dovevo dirigere tre concerti consecutivi dell’Orchestra Siciliana e uno di questi contemplava la Low Symphony … non sono un profondo estimatore di Glass, ma quella corrente ripetitiva americana, sì, è stato uno dei passaggi importanti nella musica di questi decenni. Non è nata in Europa, ma ha avuto ripercussioni anche qui, seppure minori.
Anche perché scoperta, o accettata, con grande ritardo pure lei : i primi semi ripetitivi risalgono al 1958, con LaMonte Young. Comunque nell’esperienza sua e del Divertimento Ensemble quali autori hanno resistito al tempo?
Fra quelli che considero i maestri del Novecento, Maderna, Berio, Donatoni, Castiglioni e Nono. Abbiamo anche avvicinato Clementi; abbiamo realizzato un disco e vari concerti con musica sua anche alla Piccola Scala, quando esisteva, ma non è rimasto. Non saprei dire esattamente perché. Abbiamo anche noi avvicinato relativamente tardi Mauricio Kagel, con il quale invece abbiamo lavorato moltissimo, e György Kurtag, grandissimo. Un incontro assolutamente determinante è stato con Lachenmann, con cui abbiamo lavorato molto, eppure ha difficoltà di repertorio notevole e spesso richiede grandi organici. Questi sono compositori che sono stati con noi a lungo. Ligeti l’ho purtroppo solo conosciuto, non siamo riusciti a lavorare insieme, ma le sue musiche sono punti fermi del nostro repertorio.
Già in questo preludio del ciclo Rondò, al Museo del ‘900, con Maderna, Dallapiccola e Scelsi c’è una radiografia delle correnti principali della modernità italiana. Ma Scelsi è forse il profeta più sorprendente dei tre.
Scelsi fu molto sottovalutato. Anche da me. Si sa, venne perfino accusato di non sapere scrivere, di non essere lui l’autore delle sue musiche. Nella nostra idea del comporre, Scelsi produceva solo bei suoni, e a noi non bastava: sentivamo che era necessario comporli. Lo scoprirono gli spettralisti francesi, Grisey, Dufour, Murail. Per loro, che stavano indagando il suono nelle sue fibre, è stata una rivelazione. Arrivavano da una posizione diversa, da una analisi quasi scientifica, mentre Scelsi era su posizioni ‘orientali’, contemplative. Però l’indagine che Scelsi ha svolto dal suo punto di vista sul suono puro, ha aperto strade ora molto battute, soprattutto dopo quel che è avvenuto con la musica elettronica, che ha indagato il suono più che la struttura. Quando lavoravo con Maderna allo studio di fonologia, gli strumenti a disposizione erano di indagine sul timbro, non sulla struttura, e la domanda era sempre: adesso che cosa ne faccio? La difficoltà era di comporlo quel suono. Ora la musica elettronica può fare entrambe le cose, ma da Scelsi discendono anche compositori che hanno seguito Lachenmann, e l’indagine è arrivata al punto da constatare che nessuna differenza c’è più tra suono e rumore.
Ma prima c’è sempre Cage.
In questa linea di ricerca, Cage è stato il massimo dal punto di vista concettuale.
In 40 anni di Divertimento Ensemble ha visto avvicendarsi diverse generazioni di autori. Che cosa è cambiato nel loro atteggiamento? Che cosa contraddistingue i giovani compositori di oggi?
Dal punto di vista linguistico una estrema, incredibile libertà. Noi mettevamo in crisi il linguaggio. Anche se non abbiamo tutti seguito la via, tentata da Schoenberg, di ricodificare il linguaggio col sistema dodecafonico, eravamo comunque all’interno di un campo ben definito di possibilità d’invenzione. Oggi siamo arrivati alla conclusione che non c’è più un linguaggio, ce ne sono tanti. A volte ogni pezzo ne inventa uno. E i compositori di oggi vengono da una quantità incredibile di linguaggi diversi.
Con storie di ascolto e di vita lontanissime fra loro.
E una differenza fondamentale nel rapporto con i padri. Noi avevamo ancora un atteggiamento di rispetto (sorride)…Un giorno mi sono proprio stupito quando uno dei nostri giovani compositori in residenza, Marco Mori, s’è lasciato scappare qualcosa come: Donatoni? Berio? Non sono niente. Ma mi sono reso conto che forse non poteva essere che così. Noi i padri dovevamo ucciderli. Loro non ne hanno nemmeno bisogno.
Come partissero da zero?
Non per tutti è così: non tutti cancellano la storia. Lo dico per sottolineare una libertà quasi senza confini. Noi lavoravamo sapendo di avere radici da cui eravamo partiti e la libertà ce la siamo guadagnata, noi che abbiamo fatto il ’68 (sorride). Voi – dico dei ragazzi – nel Quattrocento anche dal punto di vista linguistico la libertà ve la siete trovata.
Qualche nome da segnalare ancora tra i giovani di questi ultimi gruppi con cui lavorate?
Più ci si avvicina, meno le idee sono chiare.
Filidei?
Sì, Filidei, ma in generale mi interessano, come è sempre stato per me, i compositori non accademici. Quelli che scrivono per una necessità, una forza interiore, da navigatori, spinti dalla curiosità di vedere se ci sia qualcosa di diverso scoprire. Quelli che non hanno pulsioni manieriste.
E che cosa ha urgenza di scoprire, oggi, la musica contemporanea?
Tutto. Ogni ricerca non ha mai fine. In questo ventaglio allargatissimo della contemporaneità le ricerche sono tutte individuali. Un esempio. Abbiamo lavorato a lungo con Giovanni Bertelli, che ritengo uno dei compositori migliori. Che cosa lo distingua dagli altri, potrei dirlo dai materiali che usa, da come struttura le partiture, ma infine quel che mi colpisce di più è sempre l’assoluta libertà di osare certe cose. Nei giovani della mia generazione non l’ho mai vista. Donatoni si è guadagnato questa libertà attraverso la notte della carne, dei sensi. Stockhausen si permetteva di osare un pezzo per clarinetto di un’ora e mezzo, ma…
Tramonto delle scuole?
Certo, in questo trionfo della libertà non ci sono discendenze. Anche per il fatto che oggi, con Internet, uno può conoscere tutto, veramente tutto, e studiare contemporaneamente con otto maestri in un anno. La nostra generazione studiava con un compositore dall’inizio alla fine, dal primo al decimo anno di composizione. C’era un’impronta, non ti potevi allontanare. Dovevi imparare da quelli che ti insegnavano parlando di sé. Poi dovevamo imparare, da soli, ad essere noi stessi.
E il pubblico del Divertimento Ensemble com’è cambiato?
Posto che non abbiamo fatto mai il minimo compromesso, è cresciuto, sta crescendo, è più fidelizzato.
Sa che cosa offrite e ci crede?
Sì, e anche lui è più libero. Nella musica contemporanea il nostro pubblico assomiglia ai compositori che ricerco, curiosi, non di maniera.
Nei programmi del Divertimento Ensemble c’è una linea nuova di autoritratti: i solisti del gruppo che scelgono programmi loro.
Sì, autoritratti che sventagliano ma con una certa coerenza, che rivendico. E arricchisce una curiosità mia nella ricerca senza fine di quello che non conosco. Giro l’Europa, ma sono sicuro di arrivare neanche a un decimo di quel che è possibile scoprire. Una volta abbiamo affidato a cinque giovani l’organizzazione di alcuni concerti, e loro hanno portato compositori che non conoscevamo. Il gruppo per funzionare bene ha bisogno di un buon coach, ma anche di fiducia e autonomia. Così ci si arricchisce e ci si ramifica. Anche nel concerto della nostra violoncellista ci sono autori che nemmeno conoscevo. Ma mi fido. Lei, serba, ha scelto pezzi della Gubaidulina, di cui si è innamorata, ma anche di un iraniano. Andrò al concerto come uno spettatore curioso.
Altre cose nuove?
L’anno scorso abbiamo introdotto temi sociali, commissionando testi che si occupavano del problema della migrazione. Proseguiremo sul tema dell’integrazione. Siamo noi a stimolare i compositori a occuparsi di questo, perché in genere non lo fanno. È come aggiungere qualcosa che fa scattare una reazione, una fantasia, che apre a panorami diversi. Hanno reagito bene. E abbiamo anche fondato un coro non professionale che ha avuto un bel successo e ottimi risultati. Non scendere a compromessi non vuol dire star lontani dal pubblico. Organizziamo incontri, lezioni tenute da chi le sa fare, come Solbiati. Il pubblico viene perché ha bisogno di capire. E il coro, 50 persone che cantano, sono pure una collettività che ha bisogno di approfondire. Si avverte la risposta: il pubblico non viene ad ascoltarci per caso, sente che quel che stiamo facendo abbiamo impiegato anni per ottenerlo. Negli altri paesi, come la Francia, tutto è avvenuto fin dall’inizio: L’Ensemble Intercontemporain ha circa la nostra età, e gli strumenti per fare quel che fa li ha avuto fin dall’inizio. Noi la nostra realtà, compresa questa sala prove alla Fabbrica del Vapore, l’abbiamo conquistata in quarant’anni.
Fotografie di Giovanni Daniotti