Tra Ibsen e Castri, Micheletti e Fracassi vanno in scena al Parenti. Il doppio sogno diventa doppio incubo.
Nella settimana più freudiana dell’anno, con Gifuni al Piccolo nella parte del padre della psicanalisi, il Parenti risponde ad armi pari con Rosmersholm, nella riduzione a due personaggi che Massimo Castri ha tratto da Ibsen per uno spettacolo del 1980. Un doppio monodramma che Federica Fracassi e Luca Micheletti – anche regista – portano in scena con lugubri analisi e mezze voci, in una camera ardente subito trasformata in studio psicanalitico ma senza dottore.
È in un flashback allucinato che si riavvolge il duello tra il pastore Rosmer e Rebekka, la seconda moglie: impossibile sequel hitchcockiano con suspense equivalente fino al doppio suicidio dei due, che si gettano nella stessa gora del mulino che aveva inghiottito la prima moglie di Rosmer, Beata. Questa sembra rimasta in sospeso tra la vita e la morte, aggiungendosi alla schiera di “spettri” che infestano i fragili inconsci di Casa Rosmer come simbolici cavalli bianchi, che non rimandano alla libertà, come sarà per Sciuscià di De Sica, ma a una precipitosa rincorsa del destino.
Così dal doppio sogno al doppio incubo il passo è breve, tanto che queste memorie dal sottosuolo cominciano presto a intersecarsi fino a sovrapporsi alla luce delle lampade a olio sui due tavoli in scena. E gli amanti si confondono, ognuno come specchio dialettico dell’altro, si parlano addosso, si suggeriscono frasi e intenzioni, uno diventa l’altra e viceversa. La prova che Rosmer chiederà a Rebekka sarà un sacrificio talmente logico che lei, ubbidiente Alcesti norvegese, farà la sua parte senza protestare. Un capro espiatorio alla Girard, come in una tragedia greca in tournée al Nord: Rebekka si fa carico delle accuse di Rosmer liberandolo da ogni senso di colpa per la moglie morta. Infine persino l’incesto si insinua tra le maglie sadomasochiste di questo gioco a due che non lascia scampo, agli attori come al pubblico, tutti invischiati in un abisso della psiche da cui pare impossibile risalire.
Dà inizio allo spettacolo una voce trasmessa per radio: ultimo collegamento con la realtà per la cronaca dell’annegamento dei due, che subito dopo risputano l’acqua che li ha soffocati e li ha fatti sprofondare in quella camera mortuaria che è la scena. Ma “la battaglia della vita” può ricominciare persino negli inferi: si riprendono discorsi, giochi e confessioni, si percorrono a ritroso le cause e i perturbanti, in una fosca atmosfera espressionista. Certo in questa riduzione Ibsen viene condensato: spariscono il contesto sociale, il salotto, i personaggi di contorno come anime alla deriva, le luci e ombre di un naturalismo borghese sospeso tra i simboli, l’illusione di un’apertura geografica e metafisica che solo una piccola città sulla costa norvegese può dare – ma si potrà recuperare con la mostra fotografica Nient’altro che finzioni, dal 19 gennaio allo spazio NonostanteMarras, poi al Parenti dal 4 aprile in concomitanza del debutto di Peer Gynt, sempre con Micheletti e Fracassi.
Quello che resta è l’impulso creativo, la miccia, il concentrato del dramma che può arrivare al pubblico senza mediazioni. A patto di avere due attori capaci di incorporarlo istante per istante, il dramma, come Micheletti e la Fracassi che, con un ritmo serratissimo che non conosce soste, trasmettono l’enfasi inebriante di chi ha colto davvero la forza vitale di Ibsen. Bastano loro a giustificare l’utilizzo della riduzione di Castri, che funziona anche con due soli personaggi superstiti. E in questo vortice di ricomposizione dell’io lo spettacolo suggerisce un salto tutto scandinavo da Norvegia a Svezia, verso quel dramma a due di psicosi insanabile che Ingmar Bergman ha messo in Persona.