Si è conclusa lo scorso 2 aprile la grande retrospettiva che la Fondation Louis Vuitton di Parigi ha dedicato a Mark Rothko (1903-1970), con circa 115 opere che ne hanno raccontato la parabola dagli esordi pittorici alla tragica fine. Emma Bozzi l’ha visitata per Cultweek e ne trae le sue riflessioni su contenuto e contenitore.
Rothko. Markus Yakovlevich Rothkowitz. 1903, Lettonia. 1970, suicida, New York. Nessuna necessità di didascalie alla sua pittura men che meno alla sua vita.
La primavera è qui e Aprile accomiata con lieta gratitudine 115 quadri, 8 Av. du Mahatma Gandhi, 75116
Paris. I silenzi ventrali e gli sguardi sulfurei delle tele di Rothko annunciano e rifuggono l’effervescenza eterea della stagione quanto vi si avvicina il lieto respiro dei bianchi di Ryman, in esposizione all’Orangerie. Das Unheimliche, il perturbante, da Freud a Didi-Huberman. Nulla di primaverile, se non la tensione e l’odore di ozono dei cieli temporaleschi. Giunti all’ultimo piano la schiena duole ed il fumatore avrà cercato invano un luogo dove sfogare la sedimentazione emotiva, ricacciato in strada disorientato nell’urgenza frettolosa una decina di piani sotto. Resta un senso di vertigine, quasi nausea. Poco del romanticismo di Friedrich, lontano da sensi spettacolari. Poesia cruda. Sale sulla ferita. L’amaro compito delle carogne di corropere il sole. Il sangue si fa verde sottopelle, sottile gelosia. Gli affezionati sussultano a verificarne il tradimento. In fondo è paradosso, come questa fila incongrua e disorganizzata e la seducente accozzaglia patinata e disorganica dell’edificio. Fondazione Vuitton. Bernard Arnauld, colui che con Mask si contente il titolo di uomo più ricco del mondo, proprietario della fondazione. Senza scopo di lucro, per il progetto della LVF presso il Bois de Boulogne ottiene 600 milioni di finanziamento statale su 700 milioni di costi effettivi. Il piano iniziale del 2006 ne prevedeva 100. Lo sfruttamento dell’agevolazione fiscale ha visto 24 imprese in Francia usufruire del 44% delle agevolazioni del 2016, che hanno permesso di dedurre il 60% dell’imposta sulla società.
La pittura, sin dall’origine della Chiesa è status, statuto, consolida uno stato di fatti sociali.
Il potere si è tradotto in immagine. La riproducibilità ne ha diffuso e amplificato il meccanismo di fruizione e dunque il valore. Dominio pop. Come nasce il pubblico, nasce la moda. Il potere detta il gusto, utilizza l’immagine per propaganda. Ma il potere di produzione dell’immagine raggiunge la collettività. Tutti sono produttori di immagini eppure l’immagine diviene potere nel momento in cui incrocia il valore d’acquisto. L’immagine diventa potere ed ora persino potere d’acquisto.
Nell’era mediatica, il valore dei luoghi di fruizione dell’opera non è poi così distante dagli imperativi dei
luoghi di culto d’un tempo. Dèi gelosi si contendono l’attenzione umana nell’altrettanto umana necessità di riconoscersi come tali in un sistema di valori da cui dipende la definizione dell’umano stesso.
La cultura è emersa nel suo prender parte allo spettacolo definendosi nella sua accezione di oggetto di status. Nell’era della narrazione, dell’identità, dell’aberrazione del normale per l’elogio della scelta identitaria (simulata) è difficile lasciar passare in sordina l’idea che l’allestimento di una maxi retrospettiva su Rothko non sia in effetti una mossa mediatica dagli inevitabili risvolti economici, che inevitabilmente fa scoppiare il fatturato di un impresa su cui le economie globali e dunque lo stato fanno affidamento. Nell’epoca del “ti pago in visibilità” è quasi ridicolo che la risonanza di un evento simile non sia considerata come una forma di profitto, o lucro. Di fatto questa è stata l’obiezione avanzata dal Fricc “Front républicain d’intervention contre la corruption” in sede di giudizio. La denucia si è presto risolta come calunnia, per una serena ripresa dei lavori con il sostegno entusiastico del comune. Bisogna certo considerare l’inevitabile sudditanza delle economie statali al mondo delle maxi imprese. Propaganda, finanziata dallo stato. Che non è più l’impero di riferimento. Cosa legittima che l’8,1 percento dei fondi statali sia stato dedicato alla fondazione dell’uomo più ricco del mondo?
Ma soprattutto, Rothko avrebbe mai acconsentito? Chi conosce l’indiscutibile attenzione nella scelta di commitenze ed esposizione di Rothko forse si è trovato a pensare al paradosso al vederlo esposto in quel Taj Mahal di legno vetro e metallo firmato Gary in cui ha sede la Fondazione. Del dinamismo mondano ed estetizzante al sapore di futuro la profondità di rotkho se ne sbatte.
É piuttosto agentività delle immagini, la vita delle immagini. Quelle immagini volitive che trascinano in uno stato, nell’essenzialità della relazione con l’altro. Un tentativo di tornare allo stato allucinatorio degli antichi, nella possibilità di una non codifica verbale ormai dimenticata per ragioni di evoluzione neurologica. Quell’attività dell’emisfero destro che oggi risulta sopita in una forte lateralizzazione a carico del sinistro, adibita appunto alla codifica verbale e logica. Analogica, nella necessità costante di un’analogia, una metafora cosciente per tradurre ogni forma.
Qui sta rothko. Lontano da ogni lettura iconologica che si sforza ancora oggi di capire il significato di queste opere senza figure e senza simboli. La possibilità di mutuare quel vero più del vero di Kandinsky e Mondrian per ri-velare il precipizio vertiginoso dell’essere coscientemente vivi. Profondità e vacuità nel colore scarno, levigato che ricorda la verità d’intento del Mantegna. Così lontano dalla riproducibilità, così banalmente grande da diventare caput, capo di bestiame, tappeto o design d’interni.
Il triste decorso del sacro nell’adorazione dell’idolatra, o del ciarlatano. Come noi in fondo, tuttologi attenti come piuma al vento che tira.
Forse la linea sottile, se esiste, tra identità e autorialità, resta il silenzio.
Contro il chiacchiericcio delle migliaia di visitatori e il ticchettio delle dita sui cellulari, visori mediali, nella
necessità di rimpicciolire una tale infinità, ridurla e relegarla in un quadrato retroilliminato perchè sia più digeribile ad occhi pigri e viziati. Se l’essenza di un Rotkho sta nel rapporto con il pubblico, allora è da chiedersi se non siamo noi ad avere l’ingrato compito delle carogne di corrompere il sole.
In copertina: Mark Rothko, No. 10, 1957. The Menil Collection, Houston. © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko – Adagp, Paris, 2023