Maghi, streghe e detective. J. K. Rowling beve la pozione polisucco e diventa Robert Galbraith, giallista. Qual è il senso di questa operazione? Che rapporti ci sono fra Harry Potter e il protagonista de “Il nido del cuculo”?
Che Joanne Rowling volesse scrivere un giallo, lo si sapeva già da tempo. Fin dal 2007 circolavano voci in merito, rumors ingombranti che si permettevano di intervenire sia sul Guardian sia all’Edinburgh Book Festival. Dall’entrata di Robert Galbraith nel mercato letterario, non passa molto tempo prima che in tanti inizino a sovrapporre le due figure. Non esiste ombra di dubbio: Galbraith non è certo un timido esordiente e le prose sono incredibilmente simili, vestono uno stile scorrevole, vivace e trasparente che privilegia lo showing al telling. Durante la ricezione del testo i lettori si sentono totalmente immersi nel mondo narrativo, in un profondo stato psicologico di equilibrio tra realtà e finzione che regala loro un grande, grande piacere, sia che lancino un paio di fatture con Harry Potter, sia che investighino con Cormoran Strike.
Dunque Harry e Cormoran, protagonisti di romanzi fantastici di formazione e di gialli, condividono blocchi tematici su cui si modellano le prose: entrambe veicolano uno stesso stile che si adatta a due generi ampi e dai contorni non ben definiti, arrivando a delineare due mondi secondari totalmente diversi. La necessità di aderire al genere giallo, con una portata di realismo di gran lunga superiore a quella del fantastico, limita tuttavia la fantasia e l’estro linguistico di Rowling, per cui lo stile ricco e pieno di buffi neologismi di Harry Potter viene decisamente ridimensionato. Rimane sempre quel gran bel pizzico di Britishness insaporito dall’atmosfera londinese, dal pub magico o babbano, dall’ironia e dalle parolacce (Cormoran Strike, così come Ron Weasley, non è certo una boccuccia di rosa).
Il blocco tematico sottolinea la tendenza alla serialità di entrambe le personalità autoriali, sebbene possiamo aspettarci sviluppi diversi: se la prosa di Rowling evolve con i personaggi e l’avanzare della saga perché il lettore del maghetto cresce con lui, si presume invece che quella di Galbraith rimanga costante perché il giallo non è di solito un genere di formazione. Sarebbe una bella sorpresa se anche Galbraith mostrasse altrettanto dinamismo e articolazione delle trame.
Il genere giallo appare dunque piuttosto ingombrante nella prosa del pen name, tanto da giustificarne, secondo una parte della critica, il carattere più maschile. David Shelley, primo editor a leggere Il richiamo del Cuculo, consapevole della reale identità dell’autore, ha dichiarato che mai avrebbe pensato che una donna potesse scrivere un romanzo così. Lasciando da parte le polemiche di genere, possiamo tuttavia supporre che la mascolinità della prosa sia in gran parte da attribuirsi al protagonista, Strike, a cui è affidata la focalizzazione del romanzo; Rowling rivendica apertamente per il suo investigatore macho un posto tra i detective alla Philip Marlowe, relegando Miss Marple nella stanza del tè.
Adottare un alter ego «Non è stata una strategia di marketing progettata da me, dal mio editore o dal mio agente» ha dichiarato Rowling al Guardian «Entrambi hanno incoraggiato il mio desiderio di tenere un basso profilo. Se la mia maggiore preoccupazione fossero state le vendite, avrei scritto fin dall’inizio utilizzando il mio nome, e con la massima ostentazione. […] La scelta di uno pseudonimo maschile è stata condotta dal desiderio di allontanare da me stessa la mia personalità autoriale, il più possibile».
Se questo è vero, se il marketing non c’entra nulla, potremmo supporre che la scelta di Rowling sia dettata da una questione di genere, calibrata sulla necessità di non deludere l’orizzonte di attesa del lettore di fantastico. Se l’autore si è sdoppiato per raccontare un genere diverso, allora l’autorialità si conferma una caratteristica testuale, una figura che appartiene alla pagina. Il che è tuttavia paradossale, se si considera quanto di sé stessa Rowling ha trasferito in Harry Potter, come se per magia anche l’autrice, alla maniera dei suoi personaggi, avesse riversato l’anima all’interno di un diario.
E’ possibile sostenere che Rowling abbia diviso la propria anima in due personalità? Qual è la porzione di Io che Rowling investe in Cormoran Strike? Si può veramente parlare di alter ego? Esiste davvero «un intervallo fra me e me»? Secondo la psicanalisi probabilmente no, non per Rowling almeno. Probabilmente parlare di Io non ha molto senso, soprattutto per quanto riguarda una scrittrice, perché, come affermava Rimbaud «Io è un altro» e lo scrittore scrive di altri, anche quando parla di se stesso.
Creandosi un secondo nome e con esso una seconda personalità autoriale, forse Rowling mostra solo di essere stufa di incarnare unicamente l’arcinota scrittrice di una delle saghe (ormai) più famose della letteratura e desidera esplorare se stessa nell’ambito della possibilità; la possibilità, per definizione, svela che c’è qualcosa ancora di sconosciuto nel nostro vicino orizzonte. Non è un caso, forse, che Rowling si inoltri nel mondo delle probabilità scegliendo il genere giallo, un genere che narra di delitti e misteri, e forse possiamo anche concepire un delitto, l’uccisione (temporanea?) di Rowling autrice, e il mistero di chi sia, in realtà, Robert Galbraith.
Se c’è qualche possibilità di svelare questo mistero, questa possibilità si esprime nel silenzio. Nella messa a tacere dell’universo di Hogwarts (che tanto ha detto in passato), l’autrice può ritrovarsi come generatrice di nuove storie. Non solo autrice di Harry Potter ma autrice e basta. Terminata la saga e finita un’avventura è tempo di crearne un’altra. E se Rowling è diversa, ora che il successo l’ha raggiunta e tanta acqua è passata sotto i ponti, perché non scegliere un nome diverso?
Ma perché sceglierlo? Rowling deve così tanto al maghetto da faticare a staccarsi dal ruolo di autrice di Harry Potter?
Possiamo formulare varie ipotesi a questo proposito: per esempio che discostandosi dal genere con cui è stata identificata, Rowling si sia sentita in colpa nel lasciare l’Harry Potter che l’ha resa famosa (in fondo, non è un mistero lo strano legame che unisce un autore ai suoi personaggi?). Ma tutto ciò può saperlo solo Rowling.
Nella scrittura i mondi si capovolgono: ciò che diventa reale è la storia che vivono i personaggi, è la loro consistenza letteraria che conta. Eppure, la nostra curiosità per un autore spesso si mescola col tentativo di impossessarsi di tutto ciò che lo riguarda e i social network certamente lo permettono. Rowling, in questo senso, appare e scompare. Gettata nel successo stellare, si è ritirata in un’altra identità, per poi riemergere. Più che chiederci chi è Rowling, potremmo chiederci dov’è Rowling? Come si colloca un autore rispetto alle sue storie, se non in una posizione di sfondo?
Se Dio si trova nei dettagli, parafrasando Voltaire, ciò vale anche per lo scrittore. L’ambiente piovigginoso, i paesaggi di Londra ci illuminano, come un breve lampo, su chi sta narrando. Ma presto siamo portati a dimenticarcene, se inseguiamo la storia. D’altronde, è proprio questo quello che un autore mira a fare: costruire una storia talmente affascinante da indurre il lettore a dimenticarsi di tutto il resto. Anche di chi la sta scrivendo.