L’esordio alla Scala del pianista austriaco Rudolf Buchbinder, diretto da Daniel Harding. Sodalizio tra due generazioni non sempre fecondo e felice
L’esordio scaligero della “strana coppia” Rudolf Buchbinder – Daniel Harding era atteso da tempo: Buchbinder, uno dei massimi interpreti beethoveniani viventi, impegnato in uno dei capisaldi del classicismo, il concerto per pianoforte e orchestra n° 5 “Imperatore”, diretto dal giovane talento britannico.
L’apertura dell’allegro iniziale (nella replica del 24 gennaio) risulta un po’ povera. Gli agili arpeggi di mi bemolle maggiore non riescono a creare quella sonorità piena che ci si aspetterebbe. La scelta è probabilmente legata alle accurate ricerche filologiche del maestro, non solo mero esecutore ma anche attento studioso della partitura ( nella sua biblioteca di Vienna possiede 35 edizioni complete delle sonate di Beethoven). Ne deriva un’interessante interpretazione personale, filologicamente pregevole, ma che, a conti fatti, non riesce a entrare fin nel profondo.
Momenti sublimi non mancano, come il tema in do bemolle maggiore del primo movimento, dove Buchbinder alza la testa dalla tastiera e il pianoforte diventa un vero e proprio carillon dalle note dolcissime. Anche l’inizio del secondo movimento è magistrale: Harding riesce a far sgorgare il suono dal nulla, per un momento la sala è vuota e sembra di assistere ad un colloquio del compositore con se stesso.
Non affascina, invece, l’interazione tra i due maestri, ottimi musicisti che però non sembrano andare oltre il semplice scambio professionale. Ne va a discapito del mantenimento della tensione musicale e del ruolo che il pianoforte dovrebbe avere all’interno di questa composizione: non più solo strumento concertante ma la sezione più importante dell’orchestra.
Conclude la serata l’eros danzante di Bela Bartok (suite dal balletto Il mandarino meraviglioso op. 19) e di Richard Strauss (Danza dei sette veli da Salomè). Harding sembra trasformato. L’essenzialità anglosassone del gesto di direzione è sempre la stessa ma dagli occhi (e di riflesso nella resa sonora) traspare un’energia nuova. Libertà espressiva, ben radicata nello stile, che forse sul titano Beethoven è stata un po’ repressa.
Foto: Brescia/Amisano, Teatro alla Scala