Un uomo, l’amante di una sola notte, una Tata, una donna che muore su un letto che non è il suo, un alter ego. Il romanzo di Sadeq Hedayat, “La civetta cieca”, è quasi una versione noir, inquietante e disperata, di “Doppio sogno”. Un autore raffinato, misterioso, da scoprire.
Finora nessuna bava di vento è riuscita a dissipare questi grevi odori di sudore umano, di malattie pregresse, di fiato, di piedi, l’odore acre di urina, quello di olio rancido, di stuoie marce, di frittata bruciata, di soffritto di cipolla, di erbe medicinali bollite, l’odore di caglio e delle feci di neonato, l’odore della stanza di un ragazzo appena entrato nella pubertà, di vapori provenienti dal vicolo; e gli odori di morte, o di qualcuno che è prossimo alla morte.
Non ci risparmia nessun dettaglio dei suoi incubi l’io narrante de La civetta cieca (tradotto per la prima volta in italiano direttamente dal persiano per Carbonio Editore da Anna Vanzan). Anche se di lui non sappiamo molto, nemmeno il nome, non è difficile trovarvi un alter ego dell’autore, Sadeq Hedayat (entrambi, per esempio, sono atei e vegetariani). Da alcuni indizi nel testo si capisce che siamo a Rey, un’antica città non lontana da Teheran, a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
La mia unica occupazione quotidiana era dipingere astucci portapenne, e mentre lavoravo fumavo oppio e bevevo.
L’incontro con una donna misteriosa sconvolge la vita del protagonista.
Per la prima volta, in questo miserabile mondo, pensai che un raggio di sole fosse venuto a illuminare la mia vita. Ma – ahimè – non si trattava di un raggio di sole, bensì di un bagliore transitorio, una stella cadente che mi si era palesata sotto forma di una donna, o di un angelo. Il suo fulgore mi fece intravedere per un solo attimo, per un mero istante, le sventure della mia vita, nonché la magnificenza e lo splendore di lei. Poi quel bagliore scomparve nel vortice dell’oscurità cui apparteneva. E io non riuscii a trattenere per me quel fuggevole raggio.
L’uomo cerca la donna dappertutto, ma invano. E quando ha rinunciato a ritrovarla, improvvisamente la sconosciuta torna da lui, ma solo per morire sul suo letto. Allora lui ne smembra il corpo e lo infila in una valigia. Questo atto, all’apparenza barbaro e insensato, rappresenta una forma di cannibalismo rituale, una sacralizzazione del corpo di lei, come vedremo alla fine. Infatti, mentre si fa portare al cimitero per seppellirla, il protagonista abbraccia la valigia e la schiaccia sull’addome, in una sorta di simbolica digestione.
L’uomo si rifugia nell’oppio e comincia la seconda parte della storia, come un sogno del protagonista sotto effetto della droga. Tutto quello accaduto nella prima parte è però così confuso, mentre quello che accade nella seconda è così concreto, che il lettore è disorientato.
Il protagonista della prima parte e quello della seconda sono narratori inaffidabili. Il primo è un solitario tossicodipendente, il secondo è sposato ed è consunto dallo spleen. Non sappiamo il nome della moglie. Lui la chiama la Sgualdrina.
Lei mi si è concessa solo una volta, una volta che non scorderò mai: accadde accanto al letto di morte di sua madre.
L’uomo è convinto che la moglie abbia vari amanti e più lei lo disprezza e lo evita, più lui la ama e la desidera sessualmente.
Ad allentare la tensione tra i due ci prova la Tata, ma senza successo. La posizione del protagonista tra la Sgualdrina e la Tata fa pensare al rapporto dell’Io con l’Es e il Super-Io; ma il Super-Io, la Tata, è così vacuo da lasciare l’Io alla mercé dell’Es, la Sgualdrina. Nella storia le figure degli anziani non hanno mai caratteri di saggezza, ma hanno sempre un che di laido e repellente. Se le intendiamo come una rappresentazione del Super-Io, mostrano il protagonista senza alcun principio morale superiore (già sappiamo che è ateo) e in balia delle sue pulsioni e della sua libido.
[La Tata] mi raccontava di quando io e mia moglie, neonati, dormivamo nella stessa culla, una culla enorme, per due poppanti.
Nel romanzo costante è la presenza di doppi. La Sgualdrina e il protagonista sono stati allattati dallo stesso seno e sono stati cresciuti insieme. Il padre e lo zio del protagonista sono gemelli. Erano invaghiti della stessa donna, una danzatrice sacra del tempio del Lingam (una forma fallica di Śiva che rappresenta l’archetipo maschile), e il protagonista non sa con certezza chi tra i due sia il suo vero padre. La figura della madre si confonde con quella della Tata.
È difficile non pensare alla teoria mimetica di René Girard, in cui i doppi sfumano l’uno nell’altro e sono in competizione per il soddisfacimento dello stesso desiderio: i gemelli che concupiscono la stessa donna; il protagonista che è costretto ad assumere le sembianze del rigattiere, presunto amante della moglie, per essere accolto da lei nel letto.
Nel rapporto tra il protagonista e la Sgualdrina si rappresenta un’altra teoria girardiana, quella del modello vittimario: la Sgualdrina per il suo negarsi al marito e concedersi al rigattiere è di scandalo al protagonista, che finisce per trucidarla (il racconto dell’assassinio non è per stomaci deboli); dalla violenza scaturisce la pace: infatti l’uomo guarisce dallo spleen e si risveglia dal sonno narcotico. Secondo Girard, dopo il sacrificio il corpo della vittima viene santificato. Questo non succede a quello della Sgualdrina, ma si comprende ora la sacralizzazione del corpo della sconosciuta nella prima parte, che appare così come un doppio positivo della Sgualdrina.
Il gioco dei doppi è complicato: il protagonista scopre di essere il rigattiere, ma poi una figura simile a quella del rigattiere gli ruba un vaso presente in tutta la storia.
Il connubio di amore e morte è un’altra costante del romanzo: pensiamo alla passione del protagonista per la sconosciuta che muore nel suo letto e all’amplesso tra il protagonista e la Sgualdrina accanto al letto di morte della madre di lei. Tornano in mente le atmosfere sospese e irreali della Bruges di Rodenbach. In Bruges la morta un vedovo sostituisce la moglie defunta con una ballerina che fisicamente le somiglia: anche qui abbiamo a che fare con un doppio e con una ballerina che si rivela una sgualdrina e che finisce trucidata.
Mi sembrava che le ombre del rigattiere, del macellaio, della Tata, della Sgualdrina mia moglie fossero ombre mie, ombre fra le quali ero prigioniero
E se tutti i personaggi fossero solo fantasmi della nevrosi o della dipendenza da oppio del protagonista?
E se questi fantasmi – per rimanere sui doppi – fossero, in ultima istanza, quelli dell’alter ego del protagonista, ovvero dell’autore stesso?
Alto, curato nell’abbigliamento. Amante della musica classica. Non sono note sue relazioni sentimentali. Di giorno conduceva modesti lavori d’ufficio. La sera frequentava i caffè dove si riuniva l’intelligencija, il Ferdows e il Naderi.
Ma dentro era inquieto e tormentato. Dietro scurrilità e frivolezza nascondeva insicurezze e angosce.
Sadeq Hedayat frequentò la scuola francese di San Luigi a Teheran, dove nacque nel 1903. Tra il 1925 e il 1930 studiò alle università di Gand, Parigi e Besançon. Partì per laurearsi in ingegneria civile, materia per cui non provava alcun interesse, passò ad architettura, che fu un ripiego non meno infelice, e solo alla fine gli fu permesso di studiare letteratura francese, l’unica disciplina che lo appassionava davvero. Nei suoi scritti si scorge l’influenza di autori del calibro di de Quincey, Poe, Lautréamont, Rilke e Kafka, nonché del simbolismo e del cinema espressionista (si pensi al Gabinetto delle figure di cera di Paul Leni). L’opera di Hedayat è però assolutamente originale e non riducibile ai soli influssi europei. Raccogliamo quindi l’invito della traduttrice e insigne iranista Anna Vanzan a considerare Hedayat come una cerniera culturale tra l’Europa e l’India.
Sì, perché c’è di India nella sua opera ce n’è tanta, almeno quanta Europa, a cominciare proprio da La civetta cieca.
La cultura persiana è molto permeabile e nel corso dei secoli ha importato ed esportato usanze e conoscenze. In particolare India e Persia vantano antichi legami, non solo commerciali. In India è presente una forte minoranza persiana, quella dei parsi, discendenti dei seguaci dello zoroastrismo emigrati nell’ottavo secolo per sfuggire alle persecuzioni religiose. Le tecniche yoga sono state accolte da secoli nella tradizione persiana. Uno dei punti di svolta nelle relazioni tra le due civiltà è il lungo soggiorno di Humayun alla corte dello scià Tahmasp I alla metà del XVI secolo. Con l’aiuto di Tahmasp I, Humayun recupera il trono e porta con sé a Delhi la cultura persiana. Ad esempio, le famose miniature indiane non sono altro che la versione locale della tecnica persiana. Ma a essere diffusa in India da Humayun è soprattutto la lingua persiana, che sarà studiata e parlata dalle classi elevate per secoli. Almeno fino all’inizio del secolo scorso la poesia persiana era largamente coltivata dalle élites indiane e quando Hedayat raggiunse Bombay nel 1936 su invito dal viceconsole persiano, suo amico, trovò un ambiente favorevole alla sua lingua e alla sua cultura.
Fu proprio a Bombay che Hedayat scrisse e pubblicò in poche copie a sue spese La civetta cieca. È stato sostenuto che l’opera fosse stata scritta addirittura durante il suo soggiorno europeo e che l’autore nemmeno avesse provato a pubblicarla in patria, consapevole che non avrebbe superato la censura. Non appartiene a questa sede appurare la veridicità dell’affermazione ma, considerando le simpatie filonaziste dello scià Reza Shah Pahlavi e l’involuzione dispotica del suo regime nella seconda metà degli anni Trenta, è comunque piuttosto improbabile che al romanzo sarebbe stata concessa l’autorizzazione alla pubblicazione. Non è un caso che un’altra importante opera, che in Germania non avrebbe mai superato la censura, fu pubblicata ad Amsterdam proprio nel ’36: si tratta del romanzo di Klaus Mann Mephisto, che prendeva di mira un alto papavero della nomenklatura nazista.
Dopo un anno e mezzo a Bombay, Hedayat tornò a Teheran. A differenza di molti suoi amici che lasciarono l’Iran, fece del distacco e del disimpegno la sua “migrazione interna”, scelta condivisa in quegli stessi anni anche da molti intellettuali tedeschi come Hans Fallada.
Nel 1941 gli inglesi e i russi occuparono il Paese per evitare che cadesse nelle mani dei tedeschi. Reza Shah pagò care le sue simpatie filonaziste e fu costretto ad abdicare in favore del figlio Mohammad Reza. La civetta cieca uscì proprio nel ’41, prima a puntate sul settimanale Iran e più tardi in forma di libro (si contano numerose edizioni fino al 1980, quando fu bandito dalla repubblica islamica dell’Iran; in Europa le prime traduzioni in inglese e francese apparvero dopo la guerra).
Negli anni Quaranta Hedayat pubblicò opere di narrativa, saggi letterari (notevole quello su Kafka), traduzioni e studi sul folklore persiano. La vita culturale ruotava intorno al Tudeh, un partito moderato di sinistra. Molti dei suoi amici ne erano membri. Hedayat non ne fece mai parte, anche se ne condivideva i valori.
Le speranze di apertura e democrazia che aveva portato l’elezione di Mohammad Reza andarono presto deluse. Il nuovo scià subì due attentai. Il Tudeh abbandonò la linea moderata e si attestò su posizioni filosovietiche, tanto che nel 1949 fu dichiarato illegale. Hedayat non condivise la svolta e finì isolato.
Con i piccoli lavori che svolgeva non guadagnava abbastanza e le percentuali ricavate dalla vendita delle sue opere erano irrisorie. Si trovò in difficoltà economiche. Cadde in depressione e per molto tempo non scrisse niente. Anche la famiglia gli voltò le spalle.
Alcuni dei suoi amici militanti del Tudeh erano finiti in carcere, altri avevano lasciato il Paese. Anche lui avrebbe voluto farlo, ma i suoi tentativi di emigrare in Svizzera e Regno Unito fallirono e, come il protagonista de La civetta cieca, si rifugiò nell’alcool e nelle droghe.
Un amico diplomatico gli procurò un permesso di soggiorno di quattro mesi a Parigi. Hedayat partì alla fine del 1950 con la speranza di trovare un lavoro e fermarsi in Francia, ma trovò solo porte chiuse. All’inizio di aprile, alla scadenza del permesso di soggiorno e senza più soldi, decise di farla finita.
Si gettò nella Senna, ma fu salvato. Ci riprovò alcuni giorni dopo. Sigillò con cura porte e finestre del suo appartamento e accese il gas.
Questa volta ci riuscì.