Da Rawalpindi a Belluno, dall’orizzonte largo alle montagne, da bambino ad adulto-bambino: chiamato, subito, a una responsabilità più grande di lui. L’esordio narrativo di Saif ur Rehman Raja, “Hijra”, non è solo il romanzo di formazione di una vita sospesa tra due mondi; è, insieme, il romanzo di formazione del mondo in cui viviamo – che è molto più plurale di quanto non si voglia ammettere. Identità, appartenenza, legami: il presente prende parola.
Un bambino impara sempre.
Impara a vivere senza padre, se il padre è distante, e ha lasciato il Pakistan per lavorare.
Impara a vivere senza genitori, se anche la madre segue il padre in Italia (e pure dei fratelli, il bambino impara a fare a meno, se sono troppo piccoli per restare da soli al paese, e quindi vengono portati via – mentre lui resta, cellula mozzata di quel nucleo originario che era famiglia).
Cresciuto dai nonni, il bambino apprende la pazienza di starsi dietro da solo: a gestirsi emozioni e mancanze; a trovarsi puntelli negli amici; a dominare, perfino, l’ansia della mannaia quotidiana: la videochiamata delle cinque del pomeriggio, l’abbraccio a distanza che strazia, la carezza mancata della madre visceralmente desiderata.
Mentre cresce – perché: cresce, il bambino. Protetto da abitudini che già hanno conosciuto un prima e un poi – ha il suo da fare a tenere a bada le ombre che gli adulti gli proiettano sempre addosso. Chi gli chiede conto della sua solitudine ( “Qualche novità? Quando torneranno a prenderti?”), chi pretende il sacrificio del dolore (sono abbracciato a me stesso), chi approfitta della sua minorità per imporgli violenza, e silenzio.
Arriva il giorno in cui il bambino attraversa i cieli: arriva in Italia, in una piccola città di montagna. Piove, la lingua è incomprensibile, perfino le spezie che la madre Shakeela gli ha insegnato sembrano opache, il mondo diventa improvvisamente fatto di abitudini totalmente estranee. E persino l’atto di respirare, di esistere si rivelano trasformati in una condanna alla diversità:
La gente mi fa sentire addosso il peso della responsabilità: se Filippo ruba una caramella, la ruba lui e basta. Se la rubo io, la rubiamo noi pakistani, tutti. Filippo fa una cazzata ed è una ragazzata, mentre io, che sono pakistano, sono così di natura: un ladro. È tipico di noi.
Io non sono più io, sono l’ambasciatore del mio paese. Ogni mattina mi sveglio e mi rendo conto di non potermi permettere la metà di quello che invece ai miei coetanei è consentito senza che la colpa ricada sull’intero universo. Non posso arrabbiarmi o essere aggressivo. Non posso dire parolacce. Non posso non essere perfettamente pronto per una verifica. Non posso essere nemmeno in leggero ritardo a nessun appuntamento. Né avere l’odore del sudore sull’autobus dopo l’ora di educazione fisica.
Ogni mia azione non è più solo mia.
Non si parlerà mai abbastanza del sacrificio dei bambini nel quadro affettivo della migrazione. E per questo Hijra, l’esordio narrativo di Saif ur Rehman Raja (già segnalato al Premio Calvino), ora pubblicato per Fandango, è un documento prezioso: perché lo racconta denudando scollature, misure di crudeltà, passaggi obbligati, privazioni imposte non soltanto dal contesto di arrivo, ma anche – una volta fatta esperienza dei mesi lontano – di rimbalzo, pure dal mondo di partenza.
Perché quando, d’estate, torna in Pakistan, il bambino viene sottoposto a un supplizio ulteriore: l’esperienza dei corpi dei nonni che sono cambiati nel frattempo, la delusione dell’impossibile volontà di riappropriarsi del passato, l’amarezza imposta dall’esclusione dei pari (che hanno maturato altra quotidianità senza di lui). È diventato, il bambino, il nipote italiano: una presenza contaminata, condannata a non poter più tornare del tutto nel luogo che gli è stato casa anche quando ci è rimasto da solo, propaggine estrema della famiglia che lo aveva lasciato lì.
Al rientro in Italia, la fine delle vacanze estive segna un’ulteriore presa di coscienza: la sensazione di essersi perso qualcosa, non solo dei propri giorni da ospite in Pakistan, ma anche di quello che, nel frattempo, stava accadendo nel luogo della sua nuova vita.
Arrancare è il verbo dell’orizzonte chiuso delle montagne bellunesi: la preadolescenza reclama, nell’incontro con la propria sessualità, rotture e riti di passaggio, ma questi avvengono tra dis-attenzioni, fratture, silenzi, atti di esclusione. E un orizzonte di razzismo omeopatico, e di aggressività a bassa intensità.
Non a caso la prima stesura di questo romanzo aveva come titolo Né di qua né di là: ponendo l’accento sulla prospettiva della formazione del sé, ma in un contesto di continua, durissima alterità.
Proprio in questo il romanzo di Saif ur Rehman Raja si pone come un’opera profondamente contemporanea, perché racconta (e lo fa dalla costruzione dell’identità interiore) ciò che significa imparare a essere senza appartenere completamente a un solo contesto; rivela il prezzo, e la ricchezza di questa esperienza che è memoria pelle e ricordo di almeno un paio di generazioni di giovani donne e giovani uomini che sono l’Italia di oggi.
La scuola come luogo di ribellione e di costruzione, il confronto tra femminile e maschile, l’omosessualità (ancora: una ulteriore fonte di frattura nei confronti di entrambi i contesti), il rapporto con la madre e con la mascolinità tossica: i temi di questo romanzo sono molti, e tutti urgenti.
Hijra è un romanzo civile che ha il pregio di non risparmiare nulla: decostruisce e ricalibra, apre gli occhi, costringe ad attraversare la linea del pregiudizio, insegna che ciascuno (in ogni atto, in ogni postura) è responsabile del pensiero che compone. E che in nessun aggettivo è possibile contenere ciò che l’identità umana è: plurale, e flessibile, e mutevole – perché viva.