Castellucci trionfa al Festival di Salisburgo con “Salome”, senz’altro una delle produzioni più riuscite di questi anni
È bastato un solo atto a Richard Strauss per mettere in musica tutta l’instabilità dei non detti, degli atti mancati, delle pulsioni di vita e di morte. In Salome il regno dell’inconscio si dischiude al pubblico fin dalle prime note di un clarinetto che apre il sipario su un Oriente mistico, allo stesso tempo attraente e terrificante: un notturno magico, sensuale e sospeso, ma illuminato da una luna che da un momento all’altro può tingersi di rosso. La Salome in scena in questi giorni al Festival di Salisburgo è senz’altro una delle produzioni più riuscite di questi anni, per lo scavo nella partitura di Franz Welser-Möst, per l’intensità dell’interpretazione di tutto cast, in particolare del soprano lituano Asmik Grigorian, e per la puntualità visionaria della messinscena di Romeo Castellucci – quarto regista italiano chiamato a Salisburgo, dopo Strehler, Ronconi e Michieletto; l’anno prossimo farà Tristano.
Welser-Möst e Castellucci sembrano avere la stessa concezione dell’opera che, forse per la prima volta, non viene eseguita come un urlo espressionista di oltre un’ora e mezza: insomma per direttore e regista questa non è una partitura destinata solo a esplosioni e scatti inconsulti. Al contrario emerge come Strauss possa esporre il dato psicologico senza volerlo per forza sviluppare, ma lasciandolo nelle sue contraddizioni: la violenza e il lirismo, gli incubi e le speranze, l’orrore e l’incanto.
Così da una parte Welser-Möst dirige i Wiener Philharmoniker dando una lettura stratificata dell’opera, cogliendo la polivalenza di una scrittura i cui effetti ne fanno sempre intuire degli altri più nascosti e impliciti, trovando un senso e un significato teatrale tanto a dissonanze deliranti quanto a quieti e raccolti passaggi diatonici. Dall’altra Castellucci segue la stessa intuizione usando la scena come radiografia di un’angoscia – come scriveva Bortolotto, le dissonanze in Strauss sono «correlati oggettivi». Il regista estrae tutte le immagini dal libretto per metterle poi in fila come ingredienti di una formula il cui risultato è un’emozione complessa, profonda, a volte terrificante, di cui non ci si libera facilmente nemmeno dopo essere usciti dalla sala.
Salome entra in scena con l’abito sporco di sangue mestruale, mentre Jochanaan è prigioniero in un buco, vive nel buio e nel buio rimane anche quando esce dal suo pozzo, con giochi di luci e ombre circolari che accompagnano la seduzione della principessa, che si contorce sul palco per suggerire al suo oscuro oggetto del desiderio i suoi appetiti e le sue voglie in fondo innocenti. Perché Salome non è un mostro, ci fa capire Castellucci, ma una ragazzina presa alla sprovvista dal sovvertimento dei sensi. È Jochanaan che, più che un santo, è un tentatore capace di trasformare la castità in una forma di violenza – del resto il personaggio era antipatico anche a Strauss, come confidò a Zweig. Niente danza dei sette veli: non serve. Salome resta pietrificata, irrigidita in posizione fetale, nuda e legata da un velo nero. Quando chiede la testa del profeta viene esaudita la richiesta complementare, e la ragazza si accoccola su un corpo decapitato, bacia lo spazio vuoto sopra il collo, poi si immerge in una pozza di latte bianco in attesa che tutto finisca. È straordinario come Asmik Grigorian entri con voce e gesti nell’anima del personaggio, appropriandosi di tutti i segni interiori disseminati sul palco, di cui fanno parte anche gli altri personaggi, tutti interpretati con grande convinzione: Gabor Bretz, Julian Prégardien, John Daszak e Anna Maria Chiuri.
Ci sarà anche qualche scritta in greco di troppo e delle note di regia non semplici, ma forse possiamo smetterla di dire che gli spettacoli di Castellucci sono tanto suggestivi quanto incomprensibili. Certo non abbiamo a che fare con un regista che intenda la drammaturgia in senso lineare: Castellucci non ci racconta un’altra trama, magari con l’idea di aggiornarla per farcela capire meglio. Perché il regista sembra non avere alcuna intenzione di modificare “in orizzontale” il senso dell’opera, piuttosto la rilegge secondo una verticalità che, in effetti, è di per sé molto musicale. In fondo sarebbe meglio non voler decifrare a ogni costo dei simboli che andrebbero letti all’interno del linguaggio costruito dalla messinscena stessa.
Immagine di copertina © Salzburger Festspiele / Ruth Walz