New York anni 70: un giovane gallerista pieno di speranze assiste all’ultima stagione di un maestro, in lotta coi demoni che lo stanno distruggendo, circondato dall’onnipotente Gala e da una corte di profittatori di ogni sorta. “Daliland” della canadese Mary Harron è un biopic ben costruito che poggia sulle solide spalle del perfetto protagonista. Con Barbara Sukowa che regala la sua altera eleganza
New York, 1973. Salvador Dalí (Ben Kingsley) vive al Ritz insieme alla moglie Gala (Barbara Sukowa) e dovrebbe dipingere le ultime tele per un’ormai imminente mostra in una galleria importante. Invece passa le sue lunghe giornate e le sue lunghissime notti tra una cena e una festa, un banchetto luculliano e un capriccio infantile, circondato da una corte di bellissime modelle, artisti, musicisti e profittatori di ogni sorta. L’incontro fortuito con James (Christopher Briney), giovane aspirante gallerista appena sbarcato dalla provincia con tutto il suo carico di entusiasmo e ingenuità, diventa l’occasione (offerta a lui e allo spettatore) per osservare da vicino un grande artista al tramonto, ma soprattutto un uomo che combatte invano contro i demoni che lo stanno distruggendo, tra crisi di angoscia al pensiero della morte, ingovernabili attacchi di ipocondria, un paralizzante timore della solitudine e la lotta silenziosa contro il morbo di Parkinson che avanza.
Daliland, il mondo di Dalì, è raccontato attraverso gli occhi prima incantati e poi incerti, ma mai veramente delusi, del giovane protagonista – San Sebastian, come lo ha soprannominato Dalì – che si muove nella New York degli anni Settanta come una sorta di Alice nel paese delle meraviglie, con la felice pervicacia, la spericolata fiducia di chi si aspetta sempre il meglio, dagli altri, dal futuro e dal proprio destino. Anche quando quest’ultimo si incarica di smentire le aspettative.
La scelta di questo particolare sguardo su Dalì e sul mistero della sua magnifica mente – caotica, selvaggia e geniale – non basterebbe però a trasformare un biopic come tanti in un film seducente e pieno di fascino. A fare la differenza è lui, Ben Kingsley, perturbante perno intorno a cui tutto ruota, illuminando di volta in volta uno sguardo, un gesto, un’ossessione. La canadese Mary Harron (già autrice di American Psycho e Charlie Says) ha costruito l’intera sceneggiatura sulla straordinaria capacità di questo attore di raccontare e raccontarsi, svettare e sprofondare, dare volto e voce in tutto il suo magnetico splendore a un artista fra i più grandi della storia. E un istante dopo mostrarcelo in tutta la sua umana miseria: patetico ometto geloso e impotente, irrimediabilmente condannato a una dimensione onanistica della vita, non solo della sessualità. Prigioniero per sempre dello sguardo e della volontà di Gala, a cui Barbara Sukowa regala un’altera eleganza che non si dimentica.
Daliland, di Mary Harron, con Ben Kingsley, Barbara Sukowa, Christopher Briney, Rupert Graves, Alexander Beyer