Su Raitre il 2 gennaio si può vedere il film di Gabriele Salvatores “Fuori era primavera”, che raccoglie moltissime testimonianze sui mesi dell’isolamento e la vita in casa in questi mesi di pandemia. Un qualificato gruppo di documentaristi, guidati da Costanza Quatriglio e Daniele Vicari ha realizzato poi “Aria”, visibile su Raiplay, miniserie in sei puntate con una decina di diari di italiani in patria e all’estero, che raccontano il distanziamento sociale, la solitudine, il volontariato di questo terribile 2020
In piena fase due della pandemia, e forse alla vigilia di una fase tre che potrebbe intrecciarsi in modi ancora da scoprire (probabilmente temibili) con la vaccinazione di massa in tutta Europa, il mondo dell’audiovisivo (meglio usare questo vocabolo che il più sbrigativo cinema, tuttora monco della parte più autentica, i film in sala) mostra i risultati del suo tentativo a vari livelli di affrontare il Covid 19, e soprattutto la vita, i protagonisti dell’era del virus, tra lockdown e speranze di ritorno alla vita “fuori”, assaporate in Italia e ben presto dimenticate in questo orribile 2020 che finalmente sta per finire.
Il pezzo più recente, ma parleremo anche di altri esperimenti già a disposizione del pubblico, è Aria, docu-serie in sei puntate di 25 minuti circa, disponibile su RaiPlay dal 29 dicembre. Realizzata da nomi importanti del documentarismo italiano (e non solo) come Andrea Porporati, Costanza Quatriglio e Daniele Vicari, al lavoro insieme a Chiara Campara, Francesco Di Nuzzo, Flavia Montini, Pietro Porporati, Greta Scicchitano, è un tentativo meno istantaneo e onnicomprensivo dei precedenti, ma in un certo senso più approfondito, di far raccontare ai protagonisti le “loro prigioni” di primavera 2020, attraverso una serie di diari che seguono diversi mesi di accadimenti privati e collettivi, fino alla “liberazione” di inizio maggio con la fine del lockdown stretto.
La differenza fondamentale con ciò che ha fatto egregiamente Gabriele Salvatores in Fuori era primavera, disponibile sempre su Raiplay da inizio dicembre e in onda il prossimo 2 gennaio su Raitre alle 22, è che in quel caso viene proposta una vasta serie di argomenti (il film è impaginato in qualche modo in capitoli tematici: le splendide vie e piazze italiane vuote e gli “eroi” in prima linea nelle corsie degli ospedali, i balconi pieni di musica) coi personaggi visti nell’attimo del loro impegno civile o del loro contesto familiare, a formare un puzzle ricco e composito, in qualche modo fissato in un momento circoscritto delle loro e nostra storia.
Aria invece vuole raccontare assai meno storie (una decina scarsa) ma prolungate nel tempo – le vediamo in essere nei mesi dell’isolamento sociale e alla sua fine – e ne intuiamo le vicende precedenti, un poco l’evoluzione futura. Sono tutti diari di italiane e italiani in patria e nel mondo, molti e molte dei quali impegnati in questa terribile battaglia per la sopravvivenza, rischiando a volte la salute e la vite, come un medico che vediamo al lavoro sugli altipiani del Kenya, o la volontaria romana della Croce Rossa che finito il lavoro “normale” sale su un’ambulanza per restarci tutta la notte, o la nave popolata di militanti ecologisti a difesa dei fondali marini ormeggiata a La Rochelle. Altri casi mostrano vicende di abbandonati in luoghi lontani, divenuti di colpo difficili: la studentessa a Shanghai, assistita con gentilezza ma nei modi del lockdown cinese, il più duro, o la famiglia operaia che non riesce a tornare dal Brasile per mancanza di voli e soldi.
Storie rese straordinarie dal contesto di personaggi-simbolo, dalla specialista in counceling di Casale che dalla sua sedia a rotelle esplora la natura e intanto dispensa suggerimenti di vita, alla signora che da Recanati dialoga con donne minacciate di violenza domestica, suggerendo comportamenti necessari eppure a volte assai difficili in quei mesi. O ancora il clown bloccato a Caltanissetta con il suo circo, in piena tournée, dallo stop ai movimenti tra regioni, così come le due giovanissime sorelle divise tra Roma e Trento per lo stesso motivo. Affiorano pure temi sociali (la protesta contro l’inquinamento da carbone a Savona o psicologici: e colpisce parecchio la testimonianza di una ragazza depressa, ancora più sola per effetto del distanziamento, che in un suo modo a tratti quasi disperato, ma anche orgoglioso, rivendica gli aspetti “di forza” di una condizione di difficoltà psichica come la sua.
I personaggi si raccontano e si evolvono sotto i nostri occhi, tra alti e bassi che non sono sempre paralleli a quelli collettivi legati alla pandemia, alternando imprecazioni e inni alla vita che comunque continua, e alla fine rivelerà, nella successiva primavera/estate anche il suo volto bello. “La vita è una gran figata” dice uno di protagonisti con una semplicità che nel contesto è forte. Come forti sono le testimonianze di chi fronteggia drammi collettivi. Forse il limite, probabilmente inevitabile, di questo esperimento è il suo eccessivo “ottimismo” finale. Che ovviamente deriva dell’andamento diacronico delle storie. Vista a giugno, la pandemia sembrava, se forse non debellata, certamente meno minacciosa. Ora il mood è assai cambiato. Sarà interessante vedere la reazione del pubblico italiano di fine anno, sfinito, esasperato dalla seconda ondata del virus ancora estesa e micidiale a livello nazionale, di fronte a una serie che inevitabilmente sembra suggerire un po’ un happy end. Che, intendiamoci, tutti sogniamo e ci aspettiamo, ma che purtroppo si è rivelato assai meno veloce di quanto ci eravamo aspettati.
Quello di Salvatores, innanzitutto è un film, di meno di un’ora e mezza, in cui necessariamente (e positivamente) si sente di più il filtro di una regia che tende a omogeneizzare il grandissimo numero di testimonianze brevi raccolte con modalità analoga all’esperimento del 2014 in cui aveva fotografato una giornata italiana tipo (in Italy a day). Così i capitoli tematici e la visione generale del racconto, come nell’esperimento precedente, servono da antidoto alla frammentarietà dei materiali. “Seguiamo l’ordine cronologico ed emotivo degli eventi”, spiega Salvatores, “da quando l’Italia guardava alla Cina e al virus come un problema lontano, passando per la graduale consapevolezza dell’emergenza, per arrivare all’inizio della fase 2. Altro tema che ho particolarmente a cuore, ed emergerà dal racconto è la rinascita della natura”.
Diverso ancora è stato l’approccio usato mesi fa (suggeriamo a chi si fosse perso il film di recuperarlo su Netflix, perché ha più di un motivo d’interesse, a partire dalla maggiore prossimità ai fatti raccontati) da Homemade, che ha raccolto 17 corti strettamente d’autore sul tema del lockdown: da Pablo Larraín a Paolo Sorrentino, da Ladj Ly a David Mackenzie, da Maggie Gyllenhaal a Kristen Stewart, da Sebastián Lelio ad Ana Lily Amirpour, tutti hanno affrontato la situazione con un punto di vista marcatamente personale, quindi piuttosto lontano da intenti documentari, da ogni latitudine e con lingue diverse, girando perlopiù dentro casa o a poca distanza da essa, usando telecamerine digitali o smartphone, in pieno distanziamento sociale. Cinema “puro” quindi, simile a esperimenti visti in passato, per esempio il puzzle a tema 11 settembre. Senza vincoli di verità giornalistica, ma con molta libertà di espressione.