L’11 dicembre 1973 le forze armate cilene attaccarono il palazzo presidenziale per rovesciare con la forza il governo Allende. Poi uccisero il presidente e iniziarono una sanguinosa persecuzione. Il regista romano gira il suo primo documentario raccontando quella storia, prima molto bella, poi molto brutta: la sua cinepresa, a camera fissa, è piazzata davanti ai testimoni, che raccontano…
Come sempre con i lavori di Nanni Moretti bisogna prestare attenzione. Non fa eccezione questa apparente eccentricità: Santiago Italia. Un documentario. Ma non nel senso classico del termine. Nanni non si mette a produrre documenti, per esempio sulle interferenze statunitensi che hanno favorito il golpe militare. A lui basta che qualcuno queste cose le dica. Saranno gli storici poi a trovare le conferme e i reperti.
Perché Nanni fa un racconto tutto emotivo su quell’ormai lontano 11 settembre 1973. Una data talmente remota da essere stata scalzata anche nella memoria. Quel giorno in Cile i militari decisero di farla finita con il governo di Unidad Popular e del suo presidente Salvador Allende, pur regolarmente e democraticamente eletto. La Moneda, il palazzo presidenziale venne bombardato con gli aerei. Allende ne uscì cadavere. La giunta militare prese il potere e nel corso del tempo liquidò non solo la democrazia ma anche migliaia di democratici. Moretti racconta quella storia, prima molto bella, poi molto brutta, piazzando la sua macchina da presa, a camera fissa, davanti ai testimoni che raccontano. Perché quel che conta sono l’umanità, i sentimenti, le emozioni. E queste arrivano. Tutte. Con qualche parentesi di filmati di repertorio.
Ma Nanni non vuole farsi mancare nulla. Così intervista anche due ufficiali golpisti. Il primo in giacca e cravatta è ineffabile, a lui non risultano grandi nefandezze, secondo lui, in fondo, in Argentina il golpe face sparire 60mila persone, in Cile solo tremila. Una contabilità orrenda e miserabile. Ma c’è di più, la giustificazione è da manifesto dell’imbecillità: abbiamo dovuto intervenire perché altrimenti ci sarebbe stata la dittatura. Come se la giunta Pinochet fosse altro.
L’altro ufficiale invece è in carcere per quel che ha fatto, ma secondo lui ha solo eseguito gli ordini. E quando cerca di chiarire come voglia un reportage equanime Nanni entra in campo (era apparso solo di spalle, e muto, nella prima inquadratura in cui guardava Santiago) e gli dice di non essere imparziale. Perché nessuno lo è, raccontando queste vicende. Non lo è stato il cardinale Raul Silva Henriquez, che prese le distanze e criticò la giunta militare prima di essere messo a tacere dal furioso anticomunista Karol Wojtyla, non lo sono coloro che si commuovono rievocando quanto è loro capitato, non lo sono stati due addetti dell’ambasciata italiana a Santiago all’epoca dei fatti.
Piero De Masi e Roberto Toscano. Quest’ultimo racconta come, per questioni di lavoro, sia andato allo stadio Nacional dove sono state imprigionate centinaia di persone. Ne rimane sconvolto, non tanto dai prigionieri, quanto dall’arrogante protervia dei militari divenuti assassini impuniti. L’ambasciata italiana occupava una vasta area, circondata da un muro relativamente basso. E qualcuno ha cominciato a scavalcarlo, trovando così rifugio in territorio italiano. Il ministero degli esteri, comprensibilmente, non dà indicazioni: quasi un silenzio assenso, e i rifugiati diventano centinaia. Alla fine saranno 600 persone, comprese donne e bambini, che avranno salva la vita, portate in Italia con un salvacondotto. E in Italia trovano rifugio, ospitalità e solidarietà commoventi. D’altri tempi.
Questo poi è il vero motivo che ha spinto Nanni a ripescare questa storia, che era stata raccontata una dozzina d’anni fa nel documentario Calle Miguel Claro 1359 da Daniela Preziosi, Tommaso D’Elia e Ugo Adilardi (è tuttora visibile su youtube.com/watch?v=eGxNK_HvI6U), quella di un’Italia di cui essere orgogliosi, non per il suo nazionalismo ma per i valori che si è dimostrato concretamente di possedere (“una volta tanto che ne abbiamo fatta una buona”).
E oggi? I giornali di destra si sono scatenati sbeffeggiando Moretti che ha detto di avere capito il perché di questo lavoro solo dopo che Matteo Salvini è diventato ministro dell’interno. Eccoli quindi tutti a sbertucciare Nanni con la risibile equivalenza Pinochet=Salvini. Che Moretti non ha mai fatto, limitandosi a parlare di accoglienza e di come tutto sia cambiato in questi anni. Ma, aldilà delle equivalenze, c’è una domanda che ci si potrebbe tranquillamente porre: Salvini e i suoi solerti sostenitori con chi si sarebbero schierati, se la macchina del tempo li avesse portati in Cile nel 1973?
Santiago, Italia, documentario di Nanni Moretti