“Sami Blood” è il convincente esordio nella regia della 31enne Amanda Kernell. Lappone, cioè sami, racconta gli atti di discriminazione cui sono sottoposti fin dalla scuola ragazzi e ragazze della sua etnia, considerati in qualche modo esseri inferiori da tanta parte della popolazione. Situazione così dolorosa da spingerli a rinnegare le radici, il loro popolo, per integrarsi nella società: senza riuscirci
Incollato ai personaggi, ai loro gesti e alle loro rughe, alle loro lacrime e ai loro occhi, Sámi Blood di Amanda Kernell ci porta in Svezia, nella terra dei sámi, meglio conosciuti come lapponi, e ci obbliga quasi a toccare più che a vedere le forme, i luoghi, le vicende e i suoi protagonisti, facendoci sentire parte della sofferenza e del disagio di una giovane ragazza, Elle Marja (Lene Cecilia Sparrok), e insieme della rabbia e del rimorso di un’anziana donna, Christina (Maj-Doris Rimpi).
Famosa per essere la casa di Babbo Natale, la Lapponia è divenuta negli ultimi anni una meta turistica molto richiesta, ma la 31enne regista, svedese di origini sámi – qui è al suo ottimo esordio nel lungometraggio, premiato alla Mostra di Venezia e passato a vari festival, dal Sundance a Toronto – mostra l’altro lato della medaglia, quello che è accaduto in quelle terre, soprattutto a chi è nato e cresciuto lì. La società sámi, fondata anticamente sul sistema matriarcale, ha subito negli anni pesanti discriminazioni razziste. Considerati “razza inferiore” rispetto agli svedesi, dagli anni 30 in poi sono stati sottoposti a esami di ogni tipo, verifiche e misurazioni fisiche, psicologiche e cognitive, che avrebbero dovuto dimostrare, attestare la loro “minorità” e i loro limiti.
Questo atteggiamento ha condotto inevitabilmente alla loro rappresentazione mentale come “diversi”, dello “stranieri”, istigando gli svedesi all’odio, alla violenza e alla separazione dai sámi, e giustificando al tempo stesso l’elaborazione di una logica di potere e di sopraffazione. Così, storicamente i lapponi per sopravvivere hanno spesso nascosto le loro origini, e per non subire discriminazioni e avere quindi le stesse possibilità degli svedesi, hanno persino rinnegato, ripudiato, occultato la loro identità e a volte perfino la famiglia.
Rifiutare le proprie origini e arrivare al punto di allontanarsi fisicamente dai propri affetti e dalla terra in cui si è nati, decidere nella disperazione di fuggire il più lontano possibile da pregiudizi, critiche e atteggiamenti razzisti, ricostruirsi con fatica e dolore una nuova identità, tutto questo è Sámi Blood. Amanda Kernell riesce a restituire in maniera reale la sofferenza, i silenzi, il sentire dei suoi personaggi: così le immagini sono fredde, taglienti come il coltello che Elle Marja ha ereditato dal padre, una lama che sancisce il legame tra due sorelle ma è anche capace di infliggere una ferita così profonda da marchiare l’anima, il cuore per un’intera vita.
Elle vive in una comunità di allevatori di renne. Come a tutti i ragazzi della sua età e della sua etnia, anche a lei viene imposto a scuola un approfondito esame, che prevede la rilevazione di vari dati, dalla dimensione del cranio, alla distanza tra gli occhi e il naso, il controllo dei denti e il colore della pelle, sino ad arrivare all’odioso step finale: essere fotografata completamente nuda, con le braccia dietro la testa, di modo che il suo corpo sia integralmente e ben visibile. Elle è una ragazza rispettosa, giudiziosa, la prima della classe, ma sono gli altri che non hanno rispetto di lei. Come tutti i sámi, vive la sua condizione in maniera conflittuale, e nelle prime scene del film la vediamo addirittura impugnare il coltello e sfidare un gruppo di ragazzi svedesi che si prendono gioco di lei, scontro che si concluderà drammaticamente perché uno dei ragazzi le sfila il coltello e forza le procura un taglio sull’orecchio. Un marchio, proprio come si fa con le renne, una cicatrice che per sempre segnerà la sua vita. Stanca di subire e desiderosa di vivere una vita normale, come il resto dei suoi coetanei, decide di abbandonare la sua comunità per “diventare svedese”. Per riuscirvi, però, dovrà interrompere ogni rapporto con la sua famiglia e affrontare condanne e incomprensioni.
Un gesto coraggioso e ambizioso che comporterà rinunce e sacrifici: ma, nella sua fuga per la libertà, dovrà imparare che ogni tentativo di allontanare fisicamente e mentalmente le sue origini sarà vano. Il film si sviluppa in una narrazione circolare, inizia ove tutto finisce, l’incipit è allo stesso tempo l’epilogo della sua storia di una donna, del suo viaggio fisico ed emotivo, che sembra da principio essere l’inizio di qualcosa di diverso, ma che alla fine non cambia nulla, come non cambia lei, la protagonista.
Premiato in tutto il mondo, riconosciuto come documento importante per il rispetto dei diritti umani, soprattutto della donna, Sámi Blood racconta la società sámi dall’interno, attraverso gli occhi di una ragazzina, e rievoca le vicende del passato con chiarezza e forza narrativa inaudita. Diretto da una donna come omaggio al suo popolo e alla sua cultura, racconta una storia drammatica fatta di sangue e yoik (forma di canto della tradizione lappone), e non risparmia alcun giudizio negativo sul popolo svedese: le sue verità sono sussurrate, incorniciate dalle immagini nere che seguono i titoli di testa e precedono i titoli di coda, pagine nere della storia di un popolo e della sua dolente umanità.