Francia chiama Italia: Samson e Dalila a Parigi, firmata da Michieletto

In Musica

Il clima neobiblico dell’opera nella rilettura del regista veneto si accorda all’eclettismo un po’ esotico della Parigi dei fasti di Napoleone III. Direzione intensa di Philippe Jordan

Incompreso, come già Bizet. Tanto che per quindici anni l’Opéra parigina ha rifiutato il povero Saint-Saëns col suo Samson et Dalila. Così il compositore se ne andò fino a Weimar dall’amico Liszt, cedendo a un titolo decisamente più wagneriano, siglato da un und tra i nomi di questi due quasi amanti biblici. Ma, come poi Bizet, dopo la sospirata prima parigina l’opera divenne un successo. Eppure anche oggi la si vede di rado, perfino in piena rive droite, tra Opéra e Bastille, entrambe sull’ottava metrò. L’ultima volta era il 1992: messa in scena di Pier Luigi Pizzi e direzione di Myung-whun Chung. Oggi invece sta al direttore musicale Philippe Jordan riconquistare l’opera d’argento della tradizione francese – chiaramente l’oro è di Carmen – col soccorso sempre scandaloso di Damiano Michieletto per le cure sceniche.

«I yielded, and unlocked her all my heart» fa dire il poeta Milton al suo Samson, che in effetti ha proprio ceduto, incautamente, tradito dalla seduttrice filistea a cui ha schiuso il suo cuore. Già Händel ne fece un oratorio ascensionale, salita al sole dopo il buio – Total eclipse! urla Samson, secoli prima di Bonnie Tyler. E per poco non ne fece un oratorio anche Saint-Saëns, fino a che non si convinse del potenziale drammatico del soggetto. Completò così una partitura sinfonica, ma che al centro di tutto ha la voce: solo il coro iniziale fa rabbrividire, per come passa dal lamento all’imprecazione, sfociando quasi nella blasfemia.

Samson-et-Dalila

Samson et Dalila © Vincent Pontet

La storia di questo Giudice – nel senso ebraico di capo – è indimenticabile per l’inquietante scena di seduzione: la filistea Dalila, da vera patriota, osa un taglio di capelli e annienta l’eroe condannando se stessa e il suo popolo alla vendetta divina in una rituale trappola per topi. Ma se c’è una certezza nel libretto, la regia di Michieletto sa metterla in dubbio. Stavolta tocca al mortal taglio di capelli, eseguito da Samson medesimo in un atto di masochismo. Atto che ammalia Dalila al punto che diventerà sua complice nella vendetta finale. Così il tempio non crolla ma è dato alle fiamme con l’aiuto della seduttrice, assai zelante nel versare benzina durante il sexy party dei filistei: magnifico l’accecante il gioco di luci gialle – di Alessandro Carletti – durante il cataclisma finale.

Dalila esce arricchita nella rilettura di Michieletto, tanto che si accetta persino una sua intrusione non prevista a inizio terzo atto, con l’eroe imprigionato che la respinge – e non possiamo dargli torto. Così il pianto della filistea in proscenio diventa necessario, nonostante la sorpresa di vedere tanto naturalismo all’opera, coi singulti per nulla trattenuti di Anita Rachvelishvili.

Per il resto la scena è praticamente un lager, sovrastato dal solito parallelepipedo cavo dello scenografo Paolo Fantin – vedi Suor Angelica , ma anche divinas palabras –, il tutto posto al di là di una fitta gabbia, evoluzione di quella brechtiana vista da poco al Piccolo. SS non del tutto riconoscibili torturano gli ebrei prigionieri con roulette russe, angosciante preludio di una raffica di mitragliate che inspiegabilmente non si sentono. Gli spari in scena qui ci stavano: a volte c’è realismo a volte no. Poi Michieletto cambia mano, ed ecco un coro mistico avanzare sul campo di battaglia, con il personaggio del vecchio ebreo che resuscita i cadaveri in un clima mitologico da Mahabharata à la Peter Brook: stilisticamente incoerente ma di gran fascino.

Forse meno efficace la scena della seduzione, troppo prudente in senso erotico come spesso capita a Michieletto, che scardina le trame sempre con una certa pruderie. Così il clima borghese in stile déco della stanza di Dalila – sempre in un parallelepipedo – raffredda l’atmosfera, e l’obnubilamento della frase Mon coeur s’ouvre à ta voix pare più un post che un pre, per dirla nel modo meno sconveniente. Samson dà le spalle a Dalila rannicchiato sul letto mentre lei lo coccola da dietro: se c’è tensione erotica è tutto merito della Rachvelishvili, sensuale per istinto.

Intensa direzione di Jordan, dalla solennità del preludio, agli accompagnamenti più evocativi, fino al ritmo serrato del duetto tra Dalila e il Grand Prêtre che sembra sconfinare nel Lohengrin, il riferimento è a Ortrud e Friedrich. Solo rischia poco nella scena del Baccanale, raffinando fin troppo una musica che ammetterebbe senza problemi qualche maleducazione. La Rachvelishvili è vulcanica e riempie di voce la Bastille, ma sa anche sussurrare. Accanto a lei Aleksandrs Antonenko, non certo raffinato ma perfettamente in parte.

Il clima neobiblico dell’opera si accorda all’eclettismo un po’ esotico di questi anni a tre quarti dell’ottocento: quelli della nuova Parigi, richiamata anche nella mostra al Musée d’Orsay Spectaculaire Second Empire – fino al 15 gennaio. La Parigi dei fasti di Napoleone III e consorte, con i ritorni anacronistici di regalità perdute, lussi e ostentazioni ai limiti del grottesco fino al sigillo più sfarzoso completato da Charles Garnier – quello stesso teatro che rifiutava Saint-Saëns. Sono le trasformazioni dell’era Haussmann, di fronte a cui ebbero educazione sentimentale e artistica anche i Bizet, Zola e Manet con le loro illusioni mai perdute di quando a Parigi non esistevano i boulevards.

Immagini: Samson et Dalila © Vincent Pontet

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