Da poco meno di un mese, i (tanti) visitatori che percorrono le sale di Palazzo Reale per la mostra Giotto, l’Italia si imbattono anche nella Cappella Peruzzi
Da poco meno di un mese, i (tanti) visitatori che percorrono le sale di Palazzo Reale per la mostra Giotto, l’Italia si imbattono anche nella Cappella Peruzzi. Proprio così: la Cappella Peruzzi, amata da Masaccio e Michelangelo, una delle due cappelle sopravvissute affrescate da Giotto nella chiesa francescana di Santa Croce a Firenze, è ricostruita in scala 1:1 nella Sala delle Cariatidi. È “un’installazione multimediale” (così il comunicato stampa) che ripropone “l’esperienza visiva della Cappella Peruzzi”. Niente meno; e senza spendere un euro per il treno. Nel concreto, si tratta di un’installazione ideata da Mario Bellini, l’architetto che ha curato il bell’allestimento della mostra: al centro della Sala delle Cariatidi è ricostruita fedelmente la struttura della Cappella Peruzzi; le pitture sono evocate attraverso la proiezione di immagini fotografiche. Non solo fotografie normali, però, e qui sta il senso dell’operazione. Sulle pareti della struttura di Bellini, infatti, vengono proiettate anche immagini ottenute grazie a una speciale campagna fotografica realizzata nell’oscurità più totale utilizzando luce ultravioletta. È un progetto che ha coinvolto, negli anni, l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, The Getty Foundatione, The Harvard Center for Renaissance Studies di Villa I Tatti e un gruppo integrato di ricerca dell’Università di Milano Bicocca e dell’Istituto Bioimmagini e Fisiologia Molecolare del Cnr. Niente male. L’obiettivo era, in parole povere, ottenere immagini che restituiscano la migliore leggibilità possibile a pitture disastrosamente conservate. Il confronto tra le fotografie scattate a luce visibile e quelle ottenute a ultravioletto permette di verificare i notevoli risultati della campagna.
Piccola parentesi tecnica. La cappella Peruzzi, dipinta probabilmente entro il primo decennio e considerata dai contemporanei tra i capolavori di Giotto, fu realizzata dall’artista con una tecnica sperimentale: Giotto, campione della pittura a fresco, impiega qui per raccontare le Storie del Battista una tecnica a tempera stesa sull’intonaco secco. Per chiarire: la tecnica ad affresco prevede che l’artista, all’inizio della giornata di lavoro, individui la porzione di muro su cui andrà ad operare prima del calar del sole, prepari la porzione di intonaco corrispondente e immediatamente stenda i colori, sul muro ancora fresco. A sera, quando la superficie asciuga, i colori fanno corpo con l’intonaco stesso: a questo punto non è più possibile intervenire sulla pittura se non con piccole rifiniture, sovrapposte “a secco”. Per modifiche più consistenti bisogna distruggere una porzione di intonaco e ricominciare da capo. La tecnica dell’affresco impone quindi tempi di lavorazione rapidi, non permette ripensamenti o virtuosismi pittorici (si pensi agli effetti di trasparenza). Per questo, attraverso i secoli, diversi artisti hanno sperimentato tecniche alternative, con esiti diversi (ma nell’immaginario collettivo restano, sopra tutto e tutti, i “fallimenti” leonardeschi del Cenacolo e della Battaglia di Anghiari). Così anche Giotto: le pitture della Cappella Peruzzi non sono, tecnicamente, “affreschi”. Anche per questo (e per gli interventi dei restauratori otto-novecenteschi che ignoravano le peculiarità tecniche di quei muri) le superfici della cappella sono oggi così ammalorate. E anche per questo il risultato della campagna fotografica a ultravioletti è assai prezioso.
Ma torniamo nella Sala delle Cariatidi. I curatori dell’esposizione su Giotto tenevano particolarmente alla possibilità di mostrare queste immagini, destinate altrimenti a un pubblico di specialisti o, al meglio, a costose pubblicazioni scientifiche. Per questo hanno insistito per montare l’installazione, anche a mostra già aperta, non appena si è riusciti a raccogliere, complici Fondazione Cariplo e Fondazione Bracco, i fondi necessari. Ma cosa pensare di un’operazione del genere? Va detto, in primo luogo, che l’intelligente struttura montata da Mario Bellini riesce a scongiurare il rischio – ed era incombente – dell’“effetto Las Vegas”: non si ha l’impressione di trovarsi nel Casinò The Venetian; aleggia piuttosto il senso di un’impresa fuori misura, spavalda e un po’ folle, alla Fitzcarraldo (ma senza gli incidenti di lavorazione e la follia di Klaus Kinski). L’interesse delle immagini, poi, è notevole e indubbiamente arricchisce la nostra possibilità di conoscere Giotto. E anche per questo vale la pena affrettarsi a vedere la mostra, prima dell’imminente chiusura (10 gennaio).
Di contro, due considerazioni. La prima: c’è il rischio, con operazioni di questo genere se non sufficientemente contestualizzate, di alimentare la fiducia acritica e senza limiti nelle indagini tecnico-scientifiche; che sono certo strumenti utili, ma a patto di maneggiarli con cura, incrociando gli esiti di radiografie o datazioni al carbonio 14 con gli altri strumenti del mestiere storico. Le possibilità che lo sviluppo tecnologico ha messo a disposizione dello storico (non solo dell’arte) sono formidabili: a patto che li si consideri, appunto, “strumenti” e non si finisca per considerarli, di per sé, sufficienti alla comprensione del passato.
La seconda: in epoca di immagini sempre più smaterializzate e virtuali, sempre più delocalizzate e astratte, è sano ricordare che l’ “esperienza visiva della Cappella Peruzzi” si può vivere solo in un luogo: nella Cappella Peruzzi, Chiesa di Santa Croce, Firenze.
Giotto, l’Italia, a cura di Pietro Petraroia, Serena Romano, Palazzo Reale, fino al 10 gennaio.
Immagine di copertina: Giotto di Bondone, Il banchetto di Erode, Firenze, Santa Croce, Cappella Peruzzi.