1961. Nelle viscere del Monte Bianco una impresa visionaria e coraggiosa: l’apertura del traforo tra Italia e Francia. Nel cantiere sulla montagna, si incrociano un ingegnere ferito da lutti che non si possono manifestare, una donna in fuga, un capocantiere custode dei dialetti e delle conoscenze del luogo.
Il braccio di ferro ingaggiato con la roccia aspra è destinato, a un tempo, a cambiare per sempre la natura e a unire nel sottosuolo due paesi rivali per lungo tempo alla luce.
Nell’ultimo romanzo di Sara Loffredi, “Fronte di Scavo” (Einaudi), una storia di amicizia, amore, distanza. E ingegneria.
È possibile che, a un certo punto, ancora prima di arrivare a pagina dieci, venga da chiedersi: ma che libro è, questo. Di chi è, questa scrittura composta, che ha il garbo di certi italiani alla Mario Soldati: un raccontare così misurato, con un senso cinematografico stringente e nitido – che pare cosa di altro mondo.
Fronte di scavo è il primo titolo che Sara Loffredi pubblica per Einaudi; ma è in tutto e per tutto un romanzo maturo, non solo perché, dal recente debutto, la sua carriera ha già collezionato altri due romanzi in sei anni (La felicità sta in un altro posto Rizzoli, 2014; e Non sarà sempre così Piemme, 2017), ma soprattutto perché è un libro che ha in sé una compiutezza salda, che si traduce in una scrittura consapevole, in personaggi densi, in una vicenda esemplare e però (saggiamente) scarna.
Aprire un tunnel nella più grande montagna dell’arco alpino è un’impresa che già di suo farebbe inclinare verso una inquadratura leggendaria.
Invece Sara Loffredi si tiene al di qua della linea; non indugia, tiene a bada la retorica dell’evento e lo blandisce offrendone una focalizzazione umana: faticosa, fallibile, a tratti vinta, dubitosa – e dotata del coraggio (questo sì, tremendamente perduto, oggi) di inseguire un sogno in grande.
La società in cui la storia del traforo del Monte Bianco prende forma è quella dei primi anni Sessanta: fatta di gente che si dà del lei, che nei rapporti valuta la distanza sociale, che acquisisce intimità nelle azioni vissute insieme piuttosto che nelle reciproche confidenze.
Una società quasi in toto maschile (il cantiere ne è un microcosmo esemplare), piuttosto abbottonata, attraversata da figure carismatiche ammirate da lontano, caparbie e immaginifiche, come è quella di Dino Lora Totino, conte di Cervinia, il primo a pensare e a desiderare il tunnel:
“La guerra era appena finita, chi altri avrebbe avuto l’ardire di figurarsi una nuova strada tra due paesi che fino al giorno prima avevano combattuto in campi opposti? Io avevo vent’anni, lui andava per i cinquanta, eppure il suo sguardo sul futuro era coraggioso e limpido molto più del mio. La sua voce entusiasta usciva dalla radio inondando la stanza di parole che disegnavano mondi e mattoni per costruirli”
Ne risulta un racconto epico ma non mitico, che rifugge a facili misticismi.
Sì, certo: al centro c’è il rapporto tra la natura e l’uomo.
Nella fattispecie, tra la Regina Bianca (l’enorme, inviolata massa capricciosa di roccia e neve perenne) e un giovane ingegnere, Ettore, chiamato dalla città a guidare i calcoli nel cantiere del traforo.
Suo è il punto di vista, lo sguardo che decide il passo della narrazione, compiendo uno scarto in avanti pregevole rispetto a tanti racconti di montagna in auge in tempi recenti.
Ettore è, prima di tutto e sempre, un uomo: cosa che lo distacca enormemente da cliché di facile consumo. Il che non gli impedisce, certo, di avere in sé una misura eroica – una misura, appunto, com’è nel nome stesso che lo definisce: come il suo omonimo omerico, sa sostenere il peso del proprio destino – anche quando il destino impone una lotta impari.
Ma Ettore riecheggia anche di un’altra memoria, ben nota a chi frequenta la montagna: quel Castiglioni “giusto tra le nazioni” che, non a caso, dell’alpinismo interpretò non la ricerca della difficoltà pura, bensì la dimensione dell’esplorazione e della conoscenza, che è poi anche esplorazione e conoscenza di sé.
Imparare a misurare le forze, imparare a camminare, ascoltare il respiro è dunque il primo passo che Ettore compie appena raggiunge il fianco della montagna: ad accompagnarlo, il suo alter ego, Hervé, il fiero capocantiere.
Come Ettore rappresenta l’uomo di testa, così Hervé è l’uomo di natura, colui che guida negli spazi ampli e fa da tramite tra linguaggi diversi.
“Hervé teneva negli occhi il tempo breve e nel respiro il tempo lungo”.
Hervé è la cerniera che serba i segreti del luogo e apre la porta ai saperi antichi (bellissima la figura di Samiel, il rabeilleur, omaggio a quella sapienza del corpo che passa attraverso la manipolazione e le erbe, comune a tutte le genti dell’arco alpino).
Fronte di scavo è anche la storia dell’amicizia tra due uomini molto diversi, e dell’incredibile stagione che gli è toccato di vivere.
Il mistero del loro sodalizio – e del loro rapporto con la cameriera del rifugio, Nina – sta più in quello che manca rispetto a quello che viene svelato. La tensione, e la dinamica, vengono proprio dal fatto che nessun personaggio è risolto: ognuno ha invece qualcosa da proteggere.
Ettore è un uomo che ha subito un danno, e quel danno attraversa come può: mettendo la faccia altrove, trovando un sistema per darsi un motivo per esistere, ignorando la ferita più bruciante, espiando, rinunciando a sé stesso.
Nina, dal canto suo, è tutta in levare.
Ognuno respira: nel presente e nel passato, in cresta e nelle notti insonni, dentro la galleria e nei corridoi che portano a incontrare affetti perduti.
E anche il mondo sul quale camminano non può sottrarsi dal moto incondizionato della vita che scorre:
(…) I paesi si uniscono e si dividono da sempre, come… come in un movimento di respiro. Ora che la guerra ha molto diviso, la spinta a unire è forte e prevale la volontà costruttiva degli uomini
Nel frattempo, la galleria avanza verso il crollo dell’ultimo diaframma.
Man mano che il progetto diventa realtà, il significato di quello che sta per succedere assume un peso che è, insieme, storico, umano e simbolico:
«Cosa c’è di là di così interessante?», mi chiese un giorno un minatore di Treviso che capivo a metà, venticinque anni e già tre figli ad aspettarlo. Cosa c’è dici? Un altro paese, un’altra lingua, un pezzo di mondo che poi è lo stesso ma visto da un’altra prospettiva. È per questo che vale la pena spingere la carne di tutti noi fin laggiù, stipati lì in mezzo a scavare, facendo arrabbiare la montagna che non ci lascia in pace.
Il minatore di Treviso rise, versandomi altro vino.
Tutto, fino all’immagine finale, assume così una consistenza altra.
La storia del traforo del Bianco è stata; gli uomini di cui Sara Loffredi tratteggia le mosse – i due personaggi storici, Dino Lora Totino e il geometra Pietro Alaria – sono usciti dalle parche notizie, rigorosamente tecniche, che hanno lasciato di sé in questa impresa; la ricostruzione (meticolosa) dello scavo (incredibile) è diventata pagina.
Resta, forte, la percezione di avere sfiorato con gli occhi un mondo, e un tempo, capaci di immaginare oltre.
Dote, questa, di tutta la letteratura, quando è ben fatta: rendere tangibile ciò che sta al di là – di noi, di ciò che vediamo intorno, del passato.
(Una intervista a Sara Loffredi si trova qui)