Può la femminilità resistere, esistere ed esprimersi anche quando venga costretta dentro un corpo deforme? L’ultimo romanzo di Saveria Chemotti segue la resistenza umana di Tilde, e ingaggia una lotta feroce tra ciò che appare e ciò che è.
In un giorno non preciso di fine luglio, siamo nel 1914, mentre l’eco delle mitraglie e dei fucili rintronano nel cielo trentino, Tilde nasce. In “una baracca decrepita tra i boschi, sulle ultime propaggini della ripida cresta che arriva al Garda“, strappata dall’utero materno con forza, cioè “con una corda legata alle ascelle, come si faceva con le vacche”.
«Gesummaria, cos’è?»
urla la levatrice.
E noi, lettrici e lettori, a lei:
«Perché, cos’ha?»
Gli occhi della levatrice diventano subito i nostri:
«È malformata. Tutto in lei è pigiato: testa, braccia, petto, fianchi, pancia, sedere, gambe. Piedi?»
Così, con una rapida sequenza in levare, Saveria Chemotti fa cominciare la vita della protagonista del suo ultimo romanzo, Quella voce poco fa (Iacobelli editore)
Poi tocca al narratore continuare.
“Fin da primo vagito, la neonata le era apparsa subito una creatura esiliata in un corpo assurdo.” “Un cilindro compresso, un abbozzo sommario e repellente”.
Mentre la levatrice, in un silenzio serrato, è solo gesti:
“Dopo averla ripulita alla meglio dal muco lattiginoso e viscido (…) l’aveva appoggiata sul giaciglio di paglia e fieno, collocato accanto a quello della madre. Gettato in un secchio il grembiule chiazzato di sangue, si era lavata le mani, strofinandole vigorosamente con la pietra pomice e se n’era andata, sconvolta, lasciando le due disgraziate alla fatalità dei giorni.”
Gli occhi di qualche lettrice o lettore, nel percorso del movimento sulle righe delle prime pagine, avranno avuto un guizzo, si saranno fermati per osservare in una delle stanze del proprio cervello, un gabinetto di anatomia patologica, illuminato lo scaffale delle creature mostruose conservate in formalina in alti recipienti di vetro.
Tilde poteva essere etichettata come “donna d’albero” e, in quella situazione di fissità mostruosa, studiata. E se fosse nata nel Settecento forse avrebbe fatto mostra di sé nella Wunderkammer di un qualche principe illuminato. Ma non va così la storia.
Dopo quella fuga nella realtà possibile, capiamo, vista la quantità di pagine che ci restano da leggere, duecento circa, che per Tilde, neonata di quercia, la nascita prodigiosa avrebbe potuto procurare una vita breve o una altamente straordinaria.
E ci chiediamo: ma davvero sarà possibile? E come? Così dal pugno iniziale nella nostra pancia (e non occorre essere state madri per capire cosa può essere una nascita così violenta) cresce la voglia di sapere cosa ne sarà di Tilde, chi si prenderà cura di lei, se sarà amata mai da qualcuno, cosa ne sarà del mostro, come crescerà quell’essere che non sa articolare le parole e mai ha avuto una carezza materna.
Tilde ti afferra e ti porta nel suo mondo e nel suo bosco, tra le foglie che vibrano nel canto degli uccelli.
Che educano la sua sensibilità artistica.
Tilde è mirabile e l’autrice le dà la vitalità di una guerriera che difende il proprio essere mostruoso dai giudizi della gente superstiziosa del paese che vede in lei il diavolo.
Tilde diventa Angelo per Bastiano che la nutre, diventa Angelo nel modularsi della sua voce, diventa Angelo per il brigante Adamo che di lei si innamora, diventa Angelo per il Podestà che le permette d’essere soprano nei teatri del regime. Una donna che allieterà le truppe nelle partenze per il fronte.
Quella voce poco fa è un romanzo di una bellezza surreale, diverso da tutti gli altri scritti da Saveria Chemotti, in cui si assemblano situazioni imprevedibili. E Tilde, persino nell’ultima pagina, suggerisce alla lettrice e al lettore un gioco meraviglioso contrapposto al momento terribile che sta vivendo.
“Graffiò la terra con le mani con un movimento di stizza per provare a rimettersi in piedi. Inutilmente. Si sentiva stanca. Il suo raspare le ricordava un gioco che le aveva insegnato Bastiano. Si chiamava il mondo nuovo e lei aveva sempre seguito scrupolosamente le sue indicazioni.
– Quando il terreno è bagnato, scava una piccola buca con la roncola e foderala di stagnola. Usa quella dei cioccolatini che ti porto quando posso. Stendila bene comprimendola con cura su tutto il buco in modo che diventi luccicante. Poi posa sul fondo, con cura, fiori colorati, foglie, bacche, sassolini bianchi e neri, schegge di bottiglia, piccole pigne. Chiudilo con un pezzo di vetro pulito (te lo procuro io da una finestra rotta, tu sta’ attenta a non tagliarti) e poi ricoprilo con uno strato leggero di terra asciutta. Aspetta qualche ora e poi scosta delicatamente la terra con le dita, pulisci il vetro con gesti delicati (attenta ai movimenti bruschi delle tue manone) e scoprirai che tutti gli oggetti, hanno strani riflessi cangianti a seconda della luce del giorno.”
Così noi lettrici e lettori, alla fine della storia, nella nostra immaginazione, possiamo crearci una scatola mirabile per Tilde, su modello di una delle shadow boxes di Cornell, con gli oggetti fondamentali della sua esistenza e porla nella nostra Wunderkammer: gli spartiti delle arie amate da Tilde, Un bel dì vedremo, Vissi d’arte, Casta diva; i frammenti dai libri di Bastiano, classici conservati nel baule, che hanno contribuito all’educazione sentimentale di Tilde; il pettine di legno per capelli cespuglio che aveva da bimba; il mortaio per le erbe di cui lei conosce ogni segreto medicamentoso; la sua bambola di pezza, a cui si è stretta nei momenti più tristi; le matite colorate, per i suoi disegni che riproducono i graffiti sulle rocce, scoperte nei boschi; e poi un frammento di stoffa del mantello di Adamo, l’uomo che ha amato con ogni fibra del suo essere.