La nuova produzione “Freud o dell’interpretazione dei sogni” è un’opera monumentale che offre la scena alla psicanalisi attraverso un nuovo volto del suo iniziatore: quello umano
Il senso comune è spinto a separare nettamente ciò che è scientifico da ciò che è artistico, e ad accostare quest’ultimo campo semantico a ciò che emerge dall’interiorità, dalla psiche, dalle emozioni. Anche per questo, ai suoi albori, la psicoanalisi è stata rifiutata come pseudoscienza.
Non è più così, sostanzialmente, oggi, in un tempo in cui affidarsi a qualcuno capace di svelarci ciò che di noi ci è decifrabile o pienamente analizzabile è diventata necessità ineludibile per uomini sempre più digiuni di certezze. Oggi la psicoanalisi, e con essa quel Sigmund Freud che ne è divenuto quasi sinonimo, ha i crismi di un’autorità investita quasi dei caratteri di una nuova sacralità.
Ci si accosta quindi ai suoi testi con il medesimo spirito con cui si affronta qualcosa scientifico e complesso, se non indubitabile quantomeno di ferrea autorità.
Come portare la certezza a teatro? Come trasformare in scena un saggio di una tale portata in azione scenica? Il Piccolo Teatro, avvezzo alle imprese ardue, ha voluto provarci. Così, ha scelto di affidare la scrittura della sua nuova produzione, “Freud o dell’interpretazione dei sogni”, a una penna capace di sostenere una simile sfida, Stefano Massini.
L’autore toscano ha trovato la sua risposta alla domanda sopra citata: mettendolo in discussione.
Il Freud di che va in scena al Teatro Strehler infatti è lontano dall’incarnazione esatta dell’autorità in cui ai più piace identificarlo. È – semplicemente (?) – un uomo.
Ossessionato, a sua volta. Totalmente immerso nella sua ricerca, ma, si direbbe, non in funzione di una nuova acquisizione, bensì per la propria stessa salvezza. È il suo, il primo sogno a cui cerca una risposta, che scompone e in cui si dibatte. È su uno stato di sospensione che si apre lo sguardo dello spettatore su questo “nuovo” Freud, su una sofferta immersione in luoghi cupi, irreali, onirici.
Nella ricerca di una via di fuga, suggerita da un velo che filtra lo sguardo del pubblico e sul quale linee ora nette ora tratteggiate disegnano uno spazio geometrico che mantiene tuttavia la propria impalpabilità, consentendo a più riprese di passarvi attraverso senza tuttavia poterlo eludere.
Al contrario, la regia di Federico Tiezzi ne fa strumento, capace di interagire con ciò che avviene intorno. Questo “Freud” infatti non si contenta di essere un’opera monumentale: aggiunge anche efficace compenetrarsi di media ad un testo di una simile portata per due ore e mezza di spettacolo e un cast nutritissimo e prestigioso, come altrove sarebbe impossibile, su cui spiccano per intensità Elena Ghiaurov, Marco Foschi e Giovanni Franzoni, ma che conta anche Sandra Toffolatti, Bruna Rossi, Debora Zuin, Umberto Cerliani, Nicola Ciaffoni, Alessandro Gigli, Michele Maccagno, David Meden, Valentina Piciello, Stefano Scherini.
Una macchina mastodontica e visivamente suggestiva, come d’abitudine, che pure riesce a coniugare solidità e impalpabilità. Le figure, le storie e i sogni che sfilano davanti al professore da una teoria di porte che si potrebbe immaginare infinita sembrano infatti quasi evocate da lui stesso, come se egli fosse costantemente impegnato nel tentativo, sofferto, di fare i conti con sé stesso, il suo agire, e le conseguenze che esso ha su chi si affida ciecamente a lui, come i diversi personaggi raramente mancano di ricordargli.
Tutt’altro che granitico, si scopre sorpreso da incubi, figure nere e spaventose che appaiono in angosciose processioni che appaiono scandire una fine in divenire. Anche i pazienti e i volti che gli sfilano davanti, quando non lo inchiodano alla propria profonda incapacità di fornire davvero risposte, a ben guardare gli somigliano: come Elga K. Schiacciata dal marito allo stesso modo in cui lo era il giovane Sigmund dal padre, commerciante di stoffe come il signor K.
Una balìa dei dubbi che si spinge a venir meno alla professione medesima, trasformandosi da medico a paziente quando il giovane Ludwig si dimostra più lucido di lui, fino a rifiutarsi di vederlo, nel più classico dei transfert, quando si accorge di non saper reggere la esorbitante misura in cui può vedere in lui (e quindi legarsene?).
La continua guerra con se stesso che Freud intraprende si articola, si specchia e si rifrange in una galleria di storie tutte ben interpretate fatte di sogni inconfessabili, sensi di colpa e angosce esistenziali che riescono nel non semplice compito di apparire reali in una scena, firmata Marco Rossi, che si mantiene astratta, anche grazie alle luci livide Gianni Pollini, sia quando si avventura in un esterno che appare trasformarsi in una sorta di serra, sia negli interni, cupi, in cui si muovono tuttavia personaggi che appaiono presi direttamente dalla Vienna di Freud, grazie all’attento lavoro sui costumi di Gianluca Sbicca.
Una mimesi col reale che si riscontra anche nell’interpretazione, che fa risuonare nelle voci l’accademismo e la formalità che però raccontano un tempo e un’atmosfera: onirica anch’essa in questo caso chiaramente individuata in coordinate precise di spazio e tempo. Per incarnare tutto ciò di cui si è fin qui fatto cenno occorreva una certezza, e Fabrizio Gifuni dimostra di esserlo, assumendosi sulle spalle un peso probabilmente abnorme per altri, che chiede rigore ed empatia insieme, profondità di spunti ed efficacia visiva.
Se «Il sogno trasforma in azioni quei concetti che non sa rappresentare», la rappresentazione di Massini e Tiezzi si assumeva il compito di superare quest’incapacità, dare parole ad un’afasia, creare una lingua per parole subconsce, per “un bambino analfabeta i cui pensieri sono troppo semplici per menti da scienziati: una ricerca quasi ossessiva, proprio come quella di Freud, che produce un risultato complesso, articolato, impegnativo, ma affascinate, come i sogni.
Foto di Masiar Pasquali
Freud o l’interpretazione dei sogni, di Stefano Massini, al Piccolo Teatro fino all’11 marzo