Scene da un matrimonio, o la rappresentazione della meschinità

In Teatro

La lettura attenta e riuscita di Raphael Tobia Vogel fa proprio il capolavoro di Bergman, scavando l’uomo attraverso il modo in cui sta in relazione.

Un rito. La coazione a ripetere gesti uguali, da cui ci si è lasciati riempire perché all’esterno sia restituita l’immagine migliore. O comunque l’immagine che un pubblico desidera vedere. Lo è il matrimonio, lo è la scena. Dalle Scene di un matrimonio, oggi, non può che rimanere questo. La messa in scena di una relazione osservata da un sipario fintamente chiuso, come un buco di serratura, che si apre su una scena programmaticamente già spaccata a metà, prima ancora che lo diventi il matrimonio tra Marianna e Giovanni, e la loro “fortuna spacciata, quasi sospetta” non si riveli per quella che è: la casa di bambola artificiosamente borghese e progressista in cui lei esiste soltanto in funzione del marito, e lui si lasci – semplicemente – esistere. L’esito teatrale di un testo che, alla sua prima uscita, nel 1973, ha prodotto un’impennata di divorzi, evidenzia, guardata con gli occhi di oggi, la natura puramente teatrale di vite – le nostre, ugualmente a cinquant’anni fa – fatte di nient’altro che caselle da riempire, guidati da madri registe occulte e crudeli, in assenza, di vicende il cui esito drammaturgico è già scritto. Rompersi al sopraggiungere dell’elemento esterno, la più retorica delle fidanzate giovani, destinata sì a far deflagrare la violenza e il disprezzo mascherati finora da finti sorrisi, ma non a spezzare la condanna alla ripetizione.
“Non mi sono mai chiesta cosa sono io, ma cosa gli altri vogliono che io sia.

Non è nella coppia, né nel suo sfaldarsi, che val la pena cercare, oggi, lo snodo narrativo di una storia che ci assomiglia, ma piuttosto, nella loro natura sostanzialmente finzionale. Per questo, quelli portati in scena con la firma di Raphael Tobia Vogel, al Teatro Franco Parenti, sono due bambini che giocano alla guerra, e lo fanno con la violenza cieca e la velleità ottusa con cui lo fanno i figli che non si divertono a imitare i grandi quando questi hanno paura e “voglia di non fare il bravo bambino”. E finiscono con il mettere in scena simulacri patetici e grotteschi di adulti, tra donne che si rivendicano femministe ma poi non sanno fare a meno di togliere la giacca ai fedifraghi e uomini che piangono la compassione di chi – in ogni epoca – non sa prendersi le proprie responsabilità.

 Lui è un pusillanime cui, complice la prova di un convincente Fausto Cabra, si finisce con il voler quasi bene, ingoiando il disagio di riconoscere ugualmente la parte del torto, del potere che il maschio porta, comunque, addosso. Lei, interpretata da Sara Lazzaro, è una vittima imprigionata nella propria rappresentazione; entrambi, in costumi pensati per neutralizzarli, per sparire dentro una casa di cui sono diventati e restano parte integrante anche quando vorrebbero fuggire prima di avere tempo di pentirsene.

 Due solitudini che procedono sempre su diverse temperature, e anche nello scontro sembrano sforzarsi di non raggiungere mai quella di ebollizione, finchè lo scoppio non avviene in modo estremo e scomposto.
 Vogel non cerca di imitare il rigore di Bergman, non finge una freddezza che non possiede. Suscita piuttosto, in chi crede che le parole, la riflessione di sé, debba servire a migliorarsi, il disagio di un mondo fatto di bambini che non sanno – né forse vogliono – smettere di esserlo. Rende evidente come, spesso, è disturbante la finzione più della violenza. E quanto sia, soprattutto, disturbante una la sincerità che non faccia crescere. Non basta dare nuove forme agli spazi se si resta dentro le stesse caselle e, alla fine, insieme ai detriti di una casa e di un rapporto, frammenti di ricordi della finzione non ancora finita, resta un precipitato di meschinità e fallimenti che i suoi protagonisti chiamano libertà.

È un lavoro, questo, che non offre consolazioni anche dove sembra farlo, mentre sotto ai paesaggi da cartolina restano due persone costrette a riconoscere che “questa maschera ce la mettiamo nella culla e ce la teniamo tutta l’esistenza” che il massimo che ci possiamo offrire a vicenda è una reciproca complicità in menzogne riconosciute come tali, la reciproca dipendenza di un legame “imperfetto ed egoista, brusco ed emotivo”, sgangherato e tetro. Terreno, come quello di tutti. Che lascia lo spettatore scomodo come chi ha saputo raccontare – anche oggi – una rivoluzione forse soprattutto mancata, e tuttavia mai giudicata come forse sarebbe stato facile fare.


Perché in fondo, come Marianna e Giovanni, vediamo nell’altro il demone che non sappiamo distruggere in noi stessi, e quasi sempre manca la forza di far altro che dimenarsi , quanto più teatralmente possibile, sotto la lente di uno spettatore entomologo che se cercava risposte trova altre domande. E due patologie diventare un “surrogato di senso”, a cui, tutt’al più accostare, a fondo scena, una proiezione: quello che è stato o avrebbe soltanto potuto?

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