Scrivere a mano per pensare meglio. E perché è bello. Parola di Ewan Clayton che, con i suoi caratteri, ha incantato Mantova
Scrivo l’articolo che state leggendo in Times New Roman 14 e interlinea doppia. Probabilmente voi leggete in Open sans, il font di Cultweek, che è decisamente più elegante. Ma se il vostro pc (o tablet o smartphone) non dovesse supportarlo, leggete lo stesso, perchè il sistema l’ha sostituito con un font che avete. Un Arial, un Tahoma, o magari lo stesso Times New Roman con cui vado avanti.
Vent’anni fa avrei potuto esordire così solo sul bollettino dei tipografi. Invece oggi mi capite tutti, perchè tutti allegramente parliamo la lingua della più grande rivoluzione nella scrittura dai tempi di Gutemberg. Ci siamo dentro e a nostro agio. Courier, Sans-serif, Italico. Interlinea singola, formato, layout. E neanche ci accorgiamo che il futuro è impastato col passato e che certe parole nuove sono più vecchie di Gutemberg.
Di rivoluzione ha parlato al Festivaletteratura di Mantova Ewan Clayton, calligrafo britannico e già monaco amanuense (sì, Il nome della Rosa). Vocazione intensa ma a rapido esaurimento, seguita da un impiego come consulente presso lo Xerox Parc a Palo Alto, California. Ricorda un po’ Robin Williams, ha una bella faccia simpatica, anzi un incrocio tra Robin Williams e Steve Martin (Il padre della sposa). E c’è qualcosa di molto americano in questo inglese che saluta uno per uno noi partecipanti al suo laboratorio di scrittura gotica con un “Hallo!” e una gran risata a bocca larga.
Ma cosa ci fa a Palo Alto un esperto di pennino, pergamena, inchiostro e Bodoni? «Negli anni Ottanta gli scienziati di Xerox Parc hanno inventato tutto – racconta – windows, Ethernet, il word processor. Però non sapevano che farsene. Pensavano di far soldi con le fotocopiatrici». Poi sono arrivate Canon, Kodak, e addio. E pare che anche quella lenza di Steve Jobs abbia fatto un giretto nei laboratori, abbia capito tutto e li abbia fregati, regalandoci (si fa per dire) la nostra bella rivoluzione. «Così Xerox ha dovuto cambiare orizzonte: dalle fotocopie a “document company”, esperti di documenti». Di esperti veri ne hanno chiamati parecchi. Antropologi, sociologi, storici della scrittura e calligrafi come Clayton, tutti a testa bassa a studiare cos’è un documento, come lo si può realizzare, trattare, gestire, scambiare, riprodurre e conservare nell’era digitale. Detta così, viene in mente l’Olivetti del signor Adriano, teste pensanti riunite in un posto bello, non so, un campus universitario di quelli dei film, un luogo bello fatto per pensare cose belle, verde, biciclette, jeans e sandali. Camiciole fantasia come quella che indossa Clayton. Stay hungry, stay foolish. Il volto umano della rivoluzione.
«Osti, l’è mìa facil» commenta intanto la mia vicina al tavolo del laboratorio, alle prese con uno scodellino di inchiostro nero, una pennino speciale che si chiama “penna automatica” in vendita su Amazon a una trentina di euro e un improbabile Ⅲ da ricopiare.
Ma oltre alla camiciola Palo Alto, a Mantova Clayton ha portato anche una bella giacca blu, e la sfoggia nell’incontro ufficiale di presentazione insieme a Marco Belpoliti. Con la sua giacca molto british e poco California, Clayton smonta la più grossa banalità in circolazione: scrivere a mano non serve più. Sbagliato. Sbagliatissimo, dice. La storia dimostra che l’uomo è andato accumulando tecnologie per scrivere che non si escludono a vicenda, ma si sommano aumentando le nostre possibilità e, secondo lui, la nostra felicità. Nell’epoca dei pc abbiamo anche la scrittura incisa nel marmo, no?
Per maggiori dettagli si vedano le 394 pagine de “Il filo d’oro. Storia della scrittura” che Clayton ha pubblicato lo scorso anno per Bollati Boringhieri. E poi le ricerche dimostrano che, a prendere appunti su un tablet, restano solo cifre e grafici; a prenderli a mano, resta il filo del discorso. Perchè il cervello, dice la scienza e ripete Clayton, è più coinvolto se si muove insieme alla mano. Infatti scrivo sul mio notebook in Times New Roman 14 interlinea doppia, ma seguo una scaletta scritta a mano con una bic blu, lì ha lavorato il mio cervello, parte in corsivo e parte in stampatello, con evidenziature gialle che fanno saltar fuori le parole-chiave al modo in cui i graffitari scrivono sui vagoni dei treni. Writers che – Clayton docet – sono autentici rivoluzionari, avendo inventato scritture – font – che non esistevano. Roba carica di energia e «writing is about energy», la scrittura ha a che fare con l’energia.
Ma soprattuto la scrittura, per Clayton, ha molto a che fare con la felicità dell’incontro. Mary Shelley – quella di Frankenstein – l’ha incontrata per esempio grazie alla sua scrittura. Quella di lei, la firma apposta su un enorme lenzuolo di carta, un mutuo contratto per dar da mangiare ai figli perchè, allora come oggi, carmina non dant panem. Clayton ce lo mostra, si emoziona sfogliando le paginone vergate di inchiostro a caratteri minuti. «La scrittura è fatica – commenta – ma nei caratteri, nel gesto che li ha tracciati, c’è vita». Poi si alza e raggiunge l’orlo del palco. Disegna nell’aria con entrambe le braccia prima una D e poi una N. Le code della giacca british svolazzano in una piroetta. Il pubblico, incantato. Felicità. Mi spiazza, non faccio in tempo a fotografarla. Pessima giornalista, avrei dovuto aspettarmelo: al laboratorio di scrittura gotica l’ho sentito dire che la scrittura è ritmo, e intanto cantava le lettere, a quello per bambini pare le danzasse, la dedica che mi fa alla fine sulla mia copia del libro – una R disegnata con due matite colorate tenute tra pollice indice e medio come bacchette orientali – questo trillo musicale, questo arabesco del polso, che cos’è, se non un gioioso gesto di benvenuto?