Un libro per approfondire un aspetto dell’hate speech: quello che si rivolge alle giornaliste e che per alcune ha comportato l’abbandono degli spazi del dibattito online. Le testimonianze delle professioniste che ne sono state bersaglio, la dimensione internazionale del fenomeno, le responsabilità delle piattaforme e di una politica in costante ritardo sulla comprensione della sfera digitale
«Finora, ho lasciato correre. Fingendo di non leggere le minacce e i commenti diffamatori che qui e altrove mi vengono dedicati (a proposito: esistono insulti più creativi di “mignotta”. Manco lo sforzo, fate). Adesso però mi sono stufata. E sto organizzando tutti gli screenshot fatti in questi mesi (e soprattutto negli ultimi giorni) da account con tanto di nome e cognome. Sarà una immane perdita di tempo per tutti. Per alcuni, anche di soldi. Ma a sto punto serve un approccio ecologico anche ai social. Perché evidentemente c’è chi non sa starci senza sfociare nella diffamazione e nell’incitazione alla violenza. Giornalisti (o sedicenti) inclusi».
È di pochi giorni fa questo sfogo di Marianna Aprile, nota giornalista spesso presente nel talk show di approfondimento politico. Un misto di esasperazione, stanchezza, malessere crescente a cui si è ribellata di botto. Ne aveva parlato con più distacco, ma lo shit storming non aveva ancora raggiunto il culmine, poche settimane fa nell’intervista raccolta insieme ad altre voci nel volume uscito il 26 febbraio #Staizittagiornalista! scritto da me e da Silvia Garambois, tappa di un lavoro che l’associazione di cui facciamo parte, Giulia Giornaliste, sta conducendo da più di un anno sul tema dell’hate speech e delle aggressioni digitali alle giornaliste.
«Cessa», «Maestrina», «Troia», «vai a fare la calza», «Meriti di morire», «Sei solo brava con la bocca», «Un mostro di bruttezza e cattiveria», «Strega», «A te non ti stupra nessuno», «La vedo bene come cassiera», «Le donne utilizzano il sesso per fare carriera»: sono queste le parole che colpiscono le donne più esposte nella loro professione. Tema alla moda e insieme ancora sottovalutato nelle sue conseguenze concrete, con la convinzione, sbagliata, che quello che succede nel mondo virtuale, non è reale, se non fosse che le nostre vite private e pubbliche ormai sono state tutte riassorbite dalle piazze virtuali. In questa esplorazione, partita da un’analisi per la Mappa dell’Intolleranza 2020 di Vox Osservatorio dei diritti sui profili social di giornalisti e giornaliste per scandagliare il tasso di misoginia, sempre in cima alla lista degli hater, il valore aggiunto sono gli effetti palpabili sulle persone del discorso d’odio, nelle parole dalle dirette interessate, giornaliste diversissime, impegnate su diversi fronti, cronaca, immigrazione, politica, sport, che raccontano la stessa cosa: i primi insulti, le prime minacce arrivate via Facebook e via Twitter vissute con un certo distacco: «Sarà un matto». Poi l’escalation della volgarità e dell’aggressività, la paura che le parole istighino ad azioni. Fino alla decisione in certi casi, di mollare i social, ormai strumento indispensabile di lavoro, come ha fatto per un certo periodo Antonella Napoli, direttrice di Focus on Africa che si è arresa all’ennesima minaccia di stupro «se non smetteva» di scrivere cose evidentemente sgradite: «A me l’idea che a mia figlia possano arrivare queste voci, che sua madre possa essere oggetto di queste offese, mi ha turbata».
Guardarsi le spalle, abbassare il tono di voce, o smetterla di parlare di certi temi, magari solo per qualche giorno, «per far calmare le acque», come è successo ad Angela Caponnetto di Rainews, impegnata a documentare gli sbarchi. Fino a gesti clamorosi, come quello di Nunzia Vallini, una delle poche direttrici di quotidiano in Italia, il Giornale di Brescia che, in un “lockdown dal virus delle maleparole” come lo ha definito, ha congelato la pagina Facebook del giornale perché era diventata una piazza dove le regole le dettavano gli urlatori, sotto l’egida dell’algoritmo che premia il traffico, a qualunque costo. «In questa decisione siamo stati criticati, perché abbandonavamo uno spazio pubblico ai barbari, ma se per fare il buono devo stare in un posto dove le regole non le controllo e vengo preso a mazzate, meglio starsene fuori».
Non è solo moda, dicevamo: come documentato nel libro ormai molte agenzie internazionali, dall’Onu all’Osce, dal Consiglio d’Europa alla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, prendono molto sul serio le minacce online alle donne che fanno le giornaliste, dedicando documenti mirati e risoluzioni specifiche contro quello che è identificato come un attacco alla libertà di espressione e quindi alla democrazia, che risulta così monca della voce di un pezzo di società, utilizzando la clava del sessismo e della violenza di genere. Anche in Italia ci si è posti il problema, con la commissione Cox che ha indagato l’hate speech, voluta dall’allora presidente della Camera Laura Boldrini, bersaglio prediletto da odiatori più o meno blasonati, che firma una delle prefazioni. In un altro contributo, Elisa Giomi, commissaria Agcom, definisce lo slutshaming, dare della puttana, la più longeva forma di hate speech. Un primato tutto femminile. Così come è una prerogativa soprattutto delle donne trovarsi al centro di incroci pericolosi, come suggerisce il linguista Federico Faloppa, coordinatore della Rete nazionale contro i discorsi d’odio: se sei una professionista, una giornalista, ti attaccano per come fai il tuo lavoro, ma in più perché sei una donna che lo fa, quando invece dovresti, appunto, stare zitta.
In questo viaggio quello che emerge chiaramente è il gradissimo tema della moderazione, siamo ancora dei cavernicoli digitali, poco inclini all’etichetta e tutti hanno le loro responsabilità: i grandi monopolisti delle piattaforme, che aggiornano le loro policy a giorni alterni, ma sempre in modo poco trasparente e sulla spinta di fatti eclatanti (vedi il bando di Trump dopo i fatti di Capitol Hill); i politici e gli stessi giornali (non tutti ovvio) che contribuiscono ad una polarizzazione del dibattito publico in cui viene premiato chi la spara più grossa e possibilmente contro qualcuno; i legislatori, che di sfera digitale capiscono poco e vivono sostanzialmente alla rincorsa di un mondo che cambia. La parola giusta, tra tante sbagliate, sarebbe, appunto, moderazione.
In apertura: foto di Bruno Martins/ Unsplash