Scrivere un’ulteriorità, scrivere per il corpo. Giuseppe Marini avvicina alla drammaturgia

In Teatro

Scrivere per il teatro con gli occhi del regista. Abbiamo incontrato Giuseppe Marini, che dopo aver accompagnato in scena i più grandi del nostro teatro, tra classico e contemporaneo, inizia un corso di scrittura teatrale in sei appuntamenti, a partire dal 6 marzo.


FOTO © LUCA RIVA

Franca Valeri, sopra tutti. (anche insieme a Patrizia Zappa Mulas, che abbiamo incontrato qualche tempo fa, con cui aveva portato in scena Le serve) Ma anche Maria Paiato, Vinicio Marchioni e tanti, tanti classici. La carriera di regista di Giuseppe Marini (foto a destra) parla da sé. Come tanti, tutti i suoi colleghi, anche lui si è chiesto, dopo quasi un anno di teatri chiusi, come tornare al teatro. La risposta, su impulso della scuola “Il paese che non c’è”, è stata solo apparentemente semplice. Attraverso la scrittura, quella nata come strumento, per abitare un palco. È nato così – su impulso di Carla Pinna – il progetto Looking fon Antigone, che partirà il prossimo 6 marzo, rivolto a tutti coloro che vogliono cimentarsi con la forma della scrittura per la scena, partendo da un classico, per trovare le proprie parole.
Un corso di scrittura tenuto non da un drammaturgo, ma da un regista. Interessante forse proprio per questo, per il peculiare punto di osservazione che assume chi, le parole, è chiamato a farle diventare carme.
Abbiamo incontrato, per farci raccontare il progetto, la sua idea del teatro che verrà. E cosa – soprattutto – insegna scrivere per il teatro. A chiunque vi si accosti.

Perché questo progetto?

Non ci deve essere per forza un perché, ma credo ci sia un’utilità. Siamo stati a lungo inattivi. La scrittura, la lettura, l’esegesi di un testo, tanto più un classico, che ha parlato in tante epoche e ancora parla e in tanti modi, è una cosa buona. È un percorso rivolto a persone motivate, certo. Ma sul perché risponderei: perché no?

Qual è la differenza tra un corso di scrittura tenuto da un drammaturgo e quello di un regista?

Questo percorso vorrei non avesse nulla di cattedratico; Le persone che arrivano, però incontrano chi si occupa di trasformare la scrittura drammaturgica in fatto concreto, vivo. Sarebbe bello che queste persone sappiano districarsi nella scrittura teatrale che è una scrittura non finita, vincolata, che attende un’ulteriorità per compiersi, cioè il corpo dell’attore e la sala: la parola teatrale deve suonare in un ambiente preposto. Anche la lettura non si può fare in un contesto neutro o nel proprio salotto. Esiste il teatro, che coniuga e congiunge almeno due ambienti inevitabilmente in rapporto fra loro: il teatro e la platea. È da questo dialogo, magico a volte, fecondo, che nasce il teatro. La scrittura drammaturgica è piena di regole, ha poche libertà: bisogna tenere conto di qual è la destinazione ultima. Credo che il narratore letterario sia più libero: le convenzioni della scrittura teatrale ci devono essere. Bisogna conoscerle. Se ne auspica sempre una rottura, ma le rotture serie presuppongono la loro conoscenza.

Per superare le regole bisogna conoscerle….

Oggi il modello è studiare poco, e non si capisce perché, si pensa che l’arte sia un gioco senza regole. La dimensione ludica va benissimo, ma ogni gioco ha le sue regole, e più le conosci meglio giochi. Altrimenti diventa d’accatto, poco interessante. Dietro l’apparente semplicità e sorgività di ogni forma artistica c’è un mondo di conoscenza, competenza, specializzazione: poi l’importante è non far vedere la tecnica. Per altro è una dimensione semantica tutta nostra: in greco τέχνη significa arte, non tecnica per l’arte. La tecnica, se ben usata, è quel che apre all’arte. A volte si fanno esibizioni di tecnica, cattivo uso della tecnica. Ma si vede.

La scrittura teatrale è a volte poco legata alla dimensione fisica della scrittura recitata. Il tentativo di fare esibizione porta a fare un lavoro sul testo classico interpretazioni personali…

Ne ho fatte tante; se scomodi un classico, senza che diventi un ansia isterica sei chiamato a stabilire un’ulteriorità. Devi dire qualcosa che non è ancora stato detto; devi tenere conto di chi ti ha preceduto. Se su quel testo non hai nulla da dire, non riesci a farlo parlare oggi, meglio non farlo. Bene che vada se ne farebbe un museo più o meno ben allestito. Però c’è chi lo fa anteponendosi. Anteponendo il suo bisogno, la sua storia, intertestualità personali, e si vedono testi sfasciati dal biografismo interpretativo. Ma si può, attraverso un corpo critico analitico col testo, tirar fuori elementi nuovi. Un processo più strutturale. Nel testo c’è scritto tutto. Certo ci vuole la sensibilità di notarlo, ma se anteponi il tuo ego diventano il pretesto di drammaturgie personali. È meglio quel che ha da dire Socrate di quel che ha da dire Marini. Marini deve dire la sua ma con la convinzione che la dice lo stesso e meglio se si fa da parte. Anche io mi esprimo come regista mettendo in scena uno spettacolo e racconto di me. Ma non è la prima istanza.

Cosa pensi ci sia dentro il testo di Antigone?

È una sintesi di tutto quel che è raccontabile in scena. Mi piaceva avere come compagna di viaggio questo testo adamantino, paradigmatico, dove i conflitti, la costruzione del personaggio, le dinamiche, il climax, sono resi in modo così esemplare… è perfetta come tragedia, è un gioiello di perfezione drammaturgica, e a dirlo era Hegel. L’allievo che si accosta a un esempio drammaturgico deve avere un esempio chiaro. Se partissi da Botho Strauss o dal dramma borghese di Ibsen o di altri, quantunque grandi, il processo compositivo non ha la stessa chiarezza. E poi c’è l’esigenza di recuperare, anche per vedere se parla oggi, se è un invito per gli autori di drammaturgia contemporanea la dimensione tragica, che sembra un po’ sparita da nostro sentire. Siamo pieni di drammi, ma il tragico è altro. Inviterò poi gli allievi a una composizione stimolata da me: voglio che questo laboratorio abbia una componente pratica importante, non che siano delle lectio, proprio perché sono un regista e sono la persona incaricata di misurare di ogni testo l’adattabilità, la legittimità scenica.

Il corpo dell’attore mette in pratica la scrittura. Scrivere per un corpo che non c’è, cambia? Si parla molto in questo periodo di teatro e altri strumenti. Pensi che ci siano modi per far passare il corpo in altri mezzi, che abbia una materialità diversa?

Non sono severo, settario. Se altri mezzi possono avvicinare e far tornare il desiderio, ben venga. Purché non lo sostituisca. L’emozione teatrale è diversa dalle altre. A teatro, se accade e funziona, trovi qualcosa che non trovi altrove, non riproducibile. Ma questi mezzi digitali non vanno demonizzati perché possono far riassaporare il teatro, non farlo dimenticare; lavora sul desiderio di vederlo nella sua destinazione e modalità privilegiata, quella di recarsi in un luogo fisico in cui attraverso la fisicità dell’attore qualcosa avviene. Questo è il teatro, non lo posso avere in casa, nella sua materialità, profumazione. I greci per arrivarsi dovevano scalare le montagne. Certo era più vicino agli dei, ma in generale a teatro devi volerci andare!

Si può scrivere pensando a spazi teatrali diversi?

Da piccolo vedevo il teatro in tv, fatto dai migliori attori della scena italiana, e lo amavo molto. Mi ha alfabetizzato, avvicinato. Ma mi ha messo voglia di approfondire. Non mi bastava. Mi ha messo la voglia di comprare il mio bravo biglietto e andare a teatro. Non può essere bastante a se stesso, deve attivare questa corrente, e allora va bene.

Si può sfruttare spazi come quelli digitali, in cui il rapporto è uno a uno ed è come se l’altro ci entrasse in casa? Si può partire dalla scrittura teatrale per scrivere per altri spazi?

Certo che esiste. Ma in teatro a generare l’emozione specifica è anche avere un vicino di posto di cui non si sa nulla, ma che potenzia la tua emozione. Sapere di essere una individualità, ma di centinaia nello stesso momento. Non si tratta di conoscere gli altri, ma di sapere che insieme a me compongono un rito collettivo. Non voglio sapere niente di loro, ma so che ci sono.

Pensi che cambi scrivere per portare in scena o farlo quando è tutto fermo?

Valuto spesso copioni. Non ne restano molti, ma alcune idee sono molto buone. Io non so mai quale materiale umano troverò nel corso, cerco sempre come tutti la genialità del singolo, ma non mi cambia. Cambiano i teatri chiusi, perché la scarsissima attenzione della drammaturgia italiana contemporanea e vivente rende possibile a pochissimi di essere premiati con la messinscena. Così tutto diventa scrittura per le fiction o per il cinema. È difficile che l’avventura di un drammaturgo sia duraturo, perché siamo in un sistema drammaturgicamente poco attento al nuovo.
Accetterei anche che restino chiusi per un po’ (in fondo Shakespeare quando il Globe era chiuso scrisse il Re Lear): vediamo chi sa scrivere anche in un periodo difficile. A volte le difficoltà sono feconde, quando devi fermarti a riflettere vediamo cosa produci. C’è chi scrive a rotta di collo… Bisogna anche chiedersi quanto davvero si è perso. Quanta continuità, davvero? Si può usare l’occasione per rimodulare una scrittura. Come Re Lear, che non era certo la cronaca delle difficoltà di allora, è frutto di un ripensamento profondo, quanto di più scabro e arcaico come tragedia.

Forse deve ripensarsi anche il teatro?

Lo deve fare sempre, ma se capitano queste apnee drammatiche tanto più. È entrata nel Dna del desiderio, nel meccanismo del rapporto con l’altro. Ha creato diffidenza. Qualcosa succederà, nel profondo dei rapporti intimi, amorosi, economici. C’è un prima e un dopo. Non solo teatrale, ma culturale

Cosa speri che lasci questo corso a chi lo frequenterà?

L’attitudine della scrittura teatrale, il ritmo, lo scrivere per. Uno scritto funzionale. La consapevolezza che dopo lo scritto arriva un’oralità che deve essere già insita nello scritto. Anche i drammaturghi che scrivono in casa hanno questa competenza. Sanno a chi è destinata la loro scrittura, come deve risuonare. Si sente se una battura è “scritta”, non suona, rimane su carta. Non solo perché presuppone un certo grado di semplicità e realismo, è al di là degli stili e delle poetiche.

Qual è il rapporto tra letteratura ed editoria? 

Storicamente si incontrano poco, e spesso durano poco. È la stessa accidentalità che trova un autore di teatro nell’andare in scena.

Se il testo esiste per essere portato in scena, ha senso che esista su carta? Che tipo di funzione ha?

Se non avessi nella mia biblioteca decine di drammaturghi, non li avrei conosciuti. Poi chi legge deve rintracciare da quella lettura ineludibile la legittimità scenica, ma posso saperlo solo leggendo. Benvenga una editoria che fa conoscere la drammaturgia, se è squisitamente letteraria ce ne accorgiamo soltanto leggendo. I testi non basta raccontarli. È come tu fai parlare un personaggio, come lo metti in relazione, che dice la bontà di un testo. E sta al regista saperlo vedere. Poi ci sono autori, come nel caso di Franca Valeri, la cui scrittura è fortemente ispirata dall’essere attrice. Lei scriveva molto per sé. Ma fino a un certo punto, e lo si vede rileggendoli. Vale per Eduardo, ad esempio, come non tener conto del fatto che a scrivere era lui? Ma vuol dire che non lo può fare più nessuno? Direi di no. Certo, il caso di Franca è più recente, ma hai visto ad esempio Lella Costa, portarla in scena. Certo che è un’altra cosa, come lo è Natale in casa Cupiello senza Eduardo, ma si rischia di confinare l’autore a un limbo di irrappresentabilità nel momento in cui è passata l’avventura attoriale, come se la scrittura non avesse peso. Ma non è vero.

Cosa hai imparato dagli autori attori che ti si sono affidati a te come regista?

Un rapporto molto fecondo. Quando c’è un buon copione italiano di oggi sono felice. Se ne ricavano emozioni in più. Un regista dovrebbe, secondo me, alternare classico e contemporaneo, perché bisogna sentire lo spirito del tempo. Ma quando un testo riesce a uscire dall’ombelicalità io esulto. Io cerco delle valenze sociali, come La classe, che parlava di profughi, e del bullismo, o Mar del Plata, che raccontava i desaparecidos durante il regime di Videla

Serve che il teatro si ripensi come strumento culturale?

Si. La spettacolarità deve servire un pensiero. Deve chiedersi cosa è urgente e necessario. Voglio che tanto più ora diventino due assilli del far teatro. Se questa cosa non serve, o serve solo a te, riguarda l’ego, la necessità privata, la carriera, non ha più senso. Non si può uscirsene con Feydeau. O meglio, se vuoi farlo, deve portare con sé una novità che tenga conto di tutto. Non parlo necessariamente di teatro politico o sociale. La gente avrà bisogno di svagarsi ed è legittimo. Ma la mia funzione, fatta salva questa sana esigenza di divertimento, deve tornare alla semplicità e all’immediatezza emotiva del teatro. Abbassare sovrastrutture di pensiero e saperle comunicare. La semplicità è un punto di arrivo massimo. Se il teatro torna alla disperata urgenza e alla semplicità della storia e quella commuove. Si deve connettere al cuore, più che al cervello. Bisogna capire come senza fare sentimentalismo o buonismo, io sto parlando di una intelligenza, di pancia.

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