Gigi Dall’Aglio rilegge il sovversivo classico di Testori, con una messa in scena funzionale e incisiva. Bravissimo Michele Maccagno
Avete presente le unità aristoteliche? Luogo, tempo e azione. Quei cardini del fatto teatrale, canonizzati nel Cinquecento, per cui un dramma doveva svolgersi in un unico luogo, in un tempo limitato (di solito un giorno) e concentrarsi su un’unica trama. Che fine hanno fatto poi? Quanti si ricordano ancora di loro? Ben pochi, probabilmente, e non è detto che sia un male. Ma uno senz’altro c’è, uno che le prende ancora in considerazione, anche se a modo suo, spogliandole da ogni rigore scolastico e declinandole nell’unica maniera oggi sensata. Se infatti, nella formulazione teorica “unità” stava per “unicità” (un solo luogo, un solo tempo, una sola azione), Giovanni Testori restituisce alla parola il suo senso più assoluto. In sdisOrè, ultima “rivisitazione” (ma mai termine fu più riduttivo e inappropriato) dei grandi capisaldi del teatro, in questo caso dell’Orestea di Eschilo, messa in scena da Gigi Dall’Aglio con Michele Maccagno, ci troviamo di fronte alla vera unita: unità di tutti i luoghi, di tutti i tempi e, anche, di tutte le azioni. Poco importa che i protagonisti si chiamino Oreste (anzi, Orestes, anzi Orè) ed Elettra (anzi, Elettrica, auspice Marconi), e che l’azione principale che ci viene narrata sia la vendetta compiuta dai due fratelli contro la madre Clitemnestra e il suo amante Egisto, colpevoli di aver assassinato Agamennone. Poco importa, perché la loro storia riunisce tutte le storie, e ciò di cui in realtà si parla è l’umanità, come del resto era anche in Eschilo. Non siamo in Grecia, qui, siamo in Brianza. Dove l’Adda e l’Ade si confondono. Ma anche altrove, ovunque si parli una lingua, esistente o meno. Ovunque si racconti una storia. E il tempo non è l’antichità classica, è l’attualità milanese, ma anche qualunque tempo dove si vivano ancora esperienze degne di questo nome. Perché i nomi sono solo convenzioni, ma le esperienze della vita no.
Non a caso il vero protagonista del dramma testoriano è l’atto sessuale. Richiamato, ripetuto, descritto in tutti i modi, esso è ciò che dà significato e significante a tutti i sentimenti e a tutte le azioni, è la forma attraverso cui tutti gli elementi della vita si manifestano. Egisto è terrorizzato, dunque impotente; nel desiderare il ritorno del fratello Elettra ricorda il suo membro virile; l’atto dell’uccisione della madre da parte di Oreste è niente più né meno che un atto carnale.
Quale lingua potrebbe mai descrivere questa prepotente affermazione di vita? Una sola non basta, si direbbe, è necessario quello che a prima vista potrebbe sembrare un insieme di lingue e dialetti (in particolare lombardi, va da sé). Ma in realtà gli idiomi che qui si ritrovano accumulati non sarebbero sufficienti nemmeno tutti insieme a dare ragione della potenza dei sentimenti di questa umanità, per cui quella che ascoltiamo è in realtà una lingua nuova, la cui parola principale è “anzi”. Anzi, testorianamente, “anzo”. Perché le parole, da sole, non sono mai sufficienti, vanno continuamente precisate, accresciute, manipolate, con la stessa progressione mai sazia dell’atto sessuale.
La messa in scena di Gigi Dall’Aglio rende pienamente giustizia alla potenza del testo, utilizzando pochissimi elementi scenici e facendo in modo che gli occhiacci vivissimi di Michele Maccagno ci trascinino dentro la storia. La sua interpretazione è veramente testoriana, possiamo dire, poiché riesce a rendere compiutamente fisico ogni elemento della narrazione, passando da un personaggio all’altro senza mai caricare l’interpretazione, con minime variazioni fisiche e vocali, così come veste e abbandona i singoli elementi scenici che identificano i vari caratteri.
Ma il viatico più forte che ci accompagna nel racconto è, in questo caso, la musica. Composta ed eseguita in scena da Emanuele Nidi, essa accompagna davvero il testo, quasi sillaba per sillaba, dialogando con l’attore e svolgendo a sua volta una funzione narrativa attraverso i leitmotiv dei singoli personaggi.
La catarsi finale non sarà quella eschilea. Il perdono della giustizia umana e divina non fa più per noi. Meglio quel dolce “pardòn – don – don” che ci riporta alle campane della nostra infanzia.
(Per il video si ringrazia Riff Raff Teatro)
Sdisorè, allo Spazio Tertulliano fino al 24 gennaio