Gli anni della lotta armata e delle aggressioni fasciste raccontati da sei testimoni d’epoca nel documentario di Monica Repetto “Le nostre ferite”. Un bel ritratto di donna (ottima Teresa Saponangelo) in “Il buco in testa” di Antonio Capuano, sulla vita difficile della figlia di un poliziotto ucciso a Milano. E dall’India le vicende di una famiglia coinvolta nelle rivolte dei maoisti naxaliti
Il passato che ritorna, individuale e collettivo, con le sofferenze antiche che restano attuali e con le conseguenze, forse non sempre inevitabili, di errori storici o comportamenti miopi. Sembra essere questo un tema centrale del Torino Film Festival n. 38, che sta per concludersi con molte proposte interessanti di riflessione a cavallo tra oggi, ieri e perfino l’altro ieri. Il 14 maggio 1977 un gruppo di militanti armati del gruppo radicale Autonomia Operaia uccisero a Milano in uno scontro, a colpi di pistola, il vicebrigadiere Antonio Custrà, in coda a una manifestazione. Antonio Capuano, regista napoletano di lungo corso sociale (Vito e gli altri, Luna rossa, La guerra di Mario, L’amore buio e altri) ha deciso di rievocare e attualizzare in Il buco in testa quell’episodio, raccontando con i nomi cambiati e in forma di “libera interpretazione di fatti realmente accaduti” la vita successiva, e soprattutto recente di Maria, figlia quarantenne di un padre che non ha mai potuto vedere e abbracciare ma che da sempre venera come vittima di una guerra combattuta con le armi (è il caso di dirlo) sbagliate.
Lei ora vive a Torre del Greco insieme alla madre, praticamente muta, tirando avanti con lavori precari (in un istituto tecnico-artistico), mentre le sue frequentazioni con gli uomini della città sono tormentate dall’ingombrante presenza nel suo subconscio di quel genitore che nella vita non c’è mai stato ma continua ad attraversarla: un poliziotto (facile transfert), un insegnante ribelle che la ama ma non osa davvero tentarla, un guappo di strada adolescente e violento. Finché la sua psicologa la convince a partire alla volta di Milano, per incontrare l’assassino di suo padre (Tommaso Ragno), uscito di galera dopo una lunga pena. Viaggio forse non risolutivo sulla sua esistenza futura, ma certamente liberatorio, e a modo suo istruttivo, in senso storico ma non solo.
Capuano ha una protagonista, e anche brava (Teresa Saponangelo), un tema decisamente forte (si può ricostruire una vita che è stata straziata ancor prima di venire al mondo?), uno sfondo disperato e urticante (la banlieue di Napoli): però il suo viaggio psicologico, e solo alla fine reale, avanti e indietro nel tempo e nello spazio, a tratti dà l’impressione di voler accumulare troppe cose. forse anche perché è giocato filmicamente con un eccesso di frammentazione. Ma questo ritratto di donna non pacificata resta negli occhi e nel cuore, e così la serietà e la disperazione del ripensamento su un momento della nostra vita, drammatico eppure vitale e pieno di slanci, finiti a volte sciaguratamente nel sangue.
Non diversa sembra l’ispirazione, su un terreno però strettamente documentario, di Le nostre ferite di Monica Repetto, autrice e regista tv interessata al mondo del lavoro (Operai, ThyssenKrupp Blues). Sei reali personaggi ricordano, a molti decenni di distanza, i loro drammatici trascorsi, funestati dalle imprese delle squadracce fasciste o dei gruppi armati dell’estrema sinistra: parlano in prima persona e raccontano coi toni della cronaca ciò di cui sono stati protagonisti negli anni 70. Luigi, che frequenta il collettivo universitario di Medicina e Francesco, studente del liceo Augusto, entrambi romani, vengono feriti a distanza di pochi giorni in agguati di squadristi di destra. Nunni e Anna, che a Radio Città Futura, emittente allora famosa nel panorama dell’informazione indipendente della capitale, sono protagoniste di una nota trasmissione gestita da un collettivo femminista, “le casalinghe”, e finiscono tra le vittime di un’irruzione dei neofascisti del Nar a colpi di mitra e bottiglie molotov. Vincenzo è un poliziotto del sud, unico scampato a un conflitto a fuoco con un gruppo di brigatisti rossi a Piazza Nicosia. Renzo infine è un bancario sequestrato e ferito insieme ad altri nell’attacco compiuto da Prima Linea a una scuola per futuri manager. Ogni storia ha un prima e un dopo i drammatici fatti, e vediamo le conseguenza sofferte da ciascuno di loro nel suo percorso di vita, negli affetti, nel lavoro, ma anche nelle convinzioni e nelle idee. Storie individuali e storia collettiva si rimandano partendo da quella violenza “originaria” che neanche l’impegno politico, quando ne è alla base, può giustificare. Un buon esempio di documentazione, senza retorica.
Più vicino nel tempo, legato ai primi anni di questo terzo millennio, ma lontanissimo nello spazio, l’India rurale del Nord, è il passato che coinvolge la coppia protagonista di A rifle and a bag, opera del collettivo NoCut Film (India/Romania/Italia/Qatar): Somi e suo marito Sukhram si sono conosciuti giovanissimi mentre combattevano tra le file del gruppo maoista dei Naxaliti, nella guerriglia per rivendicare il diritto alla terra e alla casa della comunità tribali di alcuni stati indiani. Poi si sono arresi e hanno abbandonato il movimento: ora vivono in una colonia costruita insieme ad altri antichi compagni, ma lo status sociale di ex combattenti coinvolge negativamente i loro figli, ostacolandone il presente scolastico e forse il futuro sociale. Senza contare che tuttora gli abitanti del paese da cui sono scappati, alla fine dal loro tratto di guerra civile, li guarda con sospetto come ex maoisti. Per gran parte racconto familiare, anche tenero per la presenza di un neonato e del “fratellone” che ha però solo 6-7 anni, per l’intelligenza e l’atteggiamento amorevole dei protagonisti verso i bimbi, gli amici e i genitori, il film ha un efficace sottofondo di inquietudine e pericolo. E segnala condizioni di vita decisamente difficili, in una giungla le cui poverissime abitazioni mancano di luce, acqua e molto altro.