Tanti capolavori e un po’ di serietà. Un binomio possibile per una mostra che migliora il panorama espositivo stantio di Palazzo Reale, pur con qualche pecca.
Spesso il rischio, nel riflettere sulla profondità dell’arte di Giovanni Segantini (Arco, 1858 – Monte Schafberg, 1899), è stato quello di non afferrarne la vastità di linguaggio, riducendo l’originalità della sua opera alla sola parabola divisionista venata da un personale simbolismo. Diciamo subito che il grande merito di questa mostra è stato quello di non esser scivolato sulle etichette più sdate, e aver ricostruito, invece, per intero, quadro dopo quadro, una panoramica più sincera del lungo e travagliato viaggio esistenziale dell’artista.
Così, al primo piano di Palazzo Reale, Milano rende omaggio allo sconfinato maestro che l’ha ritratta da ragazzo, dedicandogli la più grande retrospettiva mai realizzata in Italia. Ma se pure la ricchezza di un artista non si calcola dalla quantità di opere esposte in una mostra, tra i numerosi dipinti di questo ritorno milanese sfilano dei veri capolavori. E non è un caso se il progetto vede anche la partecipazione della gloriosa Fondazione Antonio Mazzotta, che, assieme all’insaziabile Skira, promuove la sontuosa esposizione firmata da Annie-Paule Quinsac e da Diana Segantini, pronipote dell’artista, e il catalogo della mostra, per una volta abbastanza buono.
Le circa 120 opere fatte arrivare da tutto il mondo, a cominciare dal museo Segantini di Sankt Moritz, prendono posizione nelle otto grandi sale, dove, scandite per temi, raccontano suggestivi, talvolta toccanti, passaggi stilistici dell’artista, dai giovanissimi anni trascorsi a Milano alle maestose vette dell’Engadina, passando attraverso gli anni di soggiorno in Brianza. Incantevoli “Gli esordi”, con le poche opere milanesi; Il coro di Sant’Antonio ha una luce che omaggia quella lombarda del Seicento e Il Naviglio a Ponte San Marco è un delizioso esercizio di realtà. I brani più famosi come Ave Maria a trasbordo, Le due madri e L’Angelo della Vita centellinano poi la sete del visitatore che va alla mostra solo per ritrovare quel che già conosceva.
Al di là del titolo, poco felice, nella sezione “Natura e Simbolo” si contemplano straordinari paesaggi alpini, e nella ritrattistica fa capolino lo sfavillante Ritratto della Signora Torelli. Non sfuggono nemmeno le vivide nature morte, e i bellissimi A messa prima e, sorpattutto, La benedizione delle pecore. Pecore meglio se di razza, come scrive a Pellizza da Volpedo: «io non amo le pecore bastarde, perché le parti sono sempre discordanti», mentre le vacche nel quadro Alla stanga sono dipinte rigorosamente in posa.
Si capisce, finalmente, che Segantini non è solo scapigliato, non è solo divisionista, non è solo simbolista; la sua poetica è racchiusa nell’innata dote registica che sta dietro alla composizione del dipinto, che sembra perfino arrivare a mascherare i limiti stessi di questa mostra, dall’allestimento all’illuminazione da dimenticare, assieme alla scritta a carattere improbabilmente novecentesco del manifesto. Dalla nausea sartriana che ormai ammanta le rassegne espositive del Comune di Milano Segantini si erge, però, impavido come una delle sue incantate montagne.
“Segantini. Ritorno a Milano”. Palazzo Reale, fino al 18 gennaio 2015.
Foto: Giovanni Segantini, Ave Maria a trasbordo, seconda versione, 1886. St. Moritz, Museo Segantini, deposito della Fondazione Otto Fischbacher-Giovanni Segantini.