Una versione dei “Sei personaggi” improntata a una oleografica e precisa ricostruzione storica. La funzione del suggeritore e l’eterno dilemma tra Realtà e Finzione
“Il suggeritore è la rovina dell’arte del teatro”. Non usa mezze misure Gabriele Lavia nei panni del Padre dei Sei Personaggi in cerca d’autore. E forse la pensava davvero così anche Pirandello che, tra le numerose riflessioni sul modo di mettere in scena un’opera, non sembrava vedere di buon occhio quel signore che dalla buca si prodigava nel dare l’imbeccata agli attori.
La sua colpa? Quella di togliere spontaneità alla recitazione: gli interpreti, per non sembrar finti dovrebbero avere l’accortezza di imparare la parte a memoria. Sacrosanto, diremmo oggi dopo anni di Stanislavskij e Actors Studio.
Eppure nel 1921, questa e altre affermazioni dovevano suonare come sperimentalismo ardito, avanguardismo impertinente, tanto che la prima dell’opera al teatro Valle di Roma fece scandalo: troppe regole vennero infrante per non far storcere il naso al pubblico benpensante che corse via al grido di “manicomio!”.
Tuttavia sentire ora, quasi un secolo dopo, Lavia che con enfasi sdegnante, condita da un’ombra di sarcasmo, riprende la questione, l’amplifica, scagliandosi con veemenza contro suggeritori e attori senza memoria, fa un certo effetto. Scartata, dopo qualche occhiata circospetta ai vicini di poltrona, l’ipotesi che tra gli spettatori si possa davvero nascondere qualche strenuo difensore (sicuramente agghindato con monocolo e tuba) di quel mondo teatrale ci si domanda che senso abbia una simile, reiterata, invettiva.
L’operazione di Lavia ─ alla sua prima regia da direttore artistico del Teatro della Pergola di Firenze ─ sembra infatti peccare di un eccesso di zelo filologico, una smania di fedeltà sorda e ostinata che sfocia a più riprese in un anacronismo sterile finendo per tradire gli intenti dell’originale. Già perché se lo scopo del dramma pirandelliano era quello di interrogarsi su un certo tipo di teatro dell’epoca al fine di svecchiarlo, il lungo spettacolo (2h e 25’) dell’attore di Profondo Rosso sembra invece voler riesumare molti cliché che speravamo oramai estinti.
A cominciare da una recitazione affettata, declamatoria, tanto che nella famosa scena “dei cappellini”, laddove dovrebbe emergere chiara la differenza con cui attori e personaggi vivono il palcoscenico, ci si confonde, senza sapere più se credere alla (mancata) genuinità dei primi o dei secondi.
L’impressione complessiva è quella di trovarsi di fronte a uno sfarzoso biopic o a un kolossal in costume che non lesina in comparse ─ venti gli attori sul palco, molti dei quali relegati a poche battute di sottofondo ─ dove il regista più che concentrarsi sul testo, sul tentativo di trovare un modo personale per gestire trama e implicazioni filosofiche annesse, si affida all’estetica degli allestimenti e a una ricostruzione “storica” accurata, per soddisfare le aspettative del pubblico.
Ma se le scenografie sono effettivamente intriganti nella loro imponenza e i costumi incantevoli nei loro raffinati dettagli, ciò non basta a far sparire la sensazione di modesto oleografismo. Peccato. Eppure per uscire da questa impasse poteva bastare poco: un input, un’idea accennata, il consiglio sussurrato di una voce amica che spronasse l’ingegno. Perché, quando serve, non si trova mai un buon suggeritore?