Agostino Ferrante rievoca l’uccisione accidentale da parte di un carabiniere di un 16enne napoletano, Davide Bifolco, nel 2014. E lo fa regalando a due suoi coetanei un iPhone con il quale registrare la vita loro e quella dei loro amici, in modalità auto-ripresa. Ne è uscito un “reportage” sincero, interessante, efficace di un mondo senza speranze nè futuro, contiguo alla malavita, assai apprezzato alla Berlinale
Napoli. Davide Bifolco, un ragazzo di soli sedici anni, muore per mano di un carabiniere in mezzo alle case, in mezzo alla gente del suo quartiere. Agostino Ferrante (L’orchestra di Piazza Vittorio) decide di raccontare la sua storia senza portare alla luce situazioni strazianti, accuse o dicerie, ma attraverso gli occhi di due ragazzi coetanei e amici di Davide, Pietro e Alessandro. Il film è interamente girato da loro due, per mezzo di un iPhone donatogli per l’occasione dal regista. Con questo devono usare la telecamera in modalità “selfie” e registrare la loro vita attraverso le strade di Napoli, una grande città a tratti splendente e a tratti oscura, ma soprattutto reale.
Quello che Ferrante vuole portare alla luce è il contesto dove Bifolco ha perso la vita, nell’ormai lontano 2014. Quanto è cambiato il quartiere? Quali sono i pensieri ricorrenti tra i ragazzi che vivono lì a Traiano? Non sembra, a vedere il film, che le cose siano molto cambiate, anzi. Tutti i protagonisti di questa vita, perché di vera vita si tratta, sono sempre alla ricerca di un modo migliore per stare al mondo, e di una via d’uscita che alla fine non arriva mai.
Pietro e Alessandro sono amici del cuore, fanno un sacco di cose assieme e inizialmente si sentono invincibili all’idea di creare un film come questo, senza filtri. È proprio grazie al cellulare che questo genere di documentario funziona: è un oggetto talmente di utilizzo comune per i ragazzi che quasi non si accorgono di usarlo, lasciando che lo spettatore entri nelle loro vite senza se e senza ma. I due ragazzi confessano di sentirsi vicini all’idea di entrare a far parte della malavita, perché sembra essere la strada più semplice da seguire dopo un diploma liceale mancato e senza un futuro attraente in vista. Tramite il cellulare inquadrano anche le vite di giovani coetanei e coetanee pieni di gioielli, bei vestiti, motorini. E si sentono fuori posto.
A questo punto viene da chiedersi dove sia Davide in tutto questo. Come dice Pietro a un certo punto del film, “Davide è sempre lì che ci osserva dall’alto, non smetterà mai di farlo, e forse è proprio questo che ci fa sentire al sicuro qui”. I due amici vanno a trovare i parenti del ragazzo, ancora visibilmente scossi dall’accaduto anche perché, dopo la sentenza di scagionamento del carabiniere cui partì il colpo fatale, il fratello di Davide è morto di crepacuore. Non ha retto, cedendo a un dolore troppo grande per poter essere superato. I due amici raccontano anche questo, ma lo fanno attraverso i loro occhi, non servono le parole. Si vede nel vuoto dei loro sguardi che qualcosa deve cambiare e presto, prima che tutti precipiti di nuovo.
Il film ha debuttato sugli schermi, in anteprima mondiale, al Festival di Berlino, dove il regista, accompagnato da Pietro e Alessandro è salito sul palco, ringraziando una platea enorme per i (meritati) cinque minuti di applausi, e finendo con l’esprimere il suo desiderio più grande: che questo film sia d’aiuto per guardare con occhi diversi un quartiere normale di una città italiana normale, dove vivono ragazzi normali. E per suggerire al pubblico l’idea che Davide non era un delinquente come dissero i media, allontanandosi così dai pregiudizi. I due amici hanno raccontato che la loro vita non è cambiata molto dopo il film; e che ne vorrebbero fare altri, restando a vivere lì, per portare un saluto ogni tanto a Davide. Vicino a dove viveva il ragazzo è stata posta una lapide con una croce: è sempre piena di oggetti in suo ricordo, frasi, pensieri.
Selfie, di Agostino Ferrante, con Alessandro Antonelli, Pietro Orlando