Quando è nata la loro passione per la musica contemporanea? Come si è sviluppato il loro sodalizio con gli altri membri dell’ensemble? Conversazione su musica e altro con Andrea Dulbecco e Mirco Ghirardini
In un curioso bar posto all’interno di un negozio di divani in zona Loreto (nella Milano del design si vede anche questo), Andrea Dulbecco, vibrafonista di Sentieri Selvaggi, ci parla di sé e del suo destino di percussionista.
Quali sono le sue origini e quanto è legato alla sua terra? Mi sa raccontare un aneddoto della sua primissima formazione musicale, ancor prima di entrare al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano?
Sono nato a San Remo in Liguria e mi sono trasferito a Milano a quindici anni per studiare in Conservatorio, perciò diciamo che mi sento più milanese perché ho passato gran parte della vita qui. Milano ha rappresentato per me quello che volevo fare nella vita. Ero un ragazzino e a San Remo avevo avuto la fortuna di incappare in un allievo di quello che sarebbe poi diventato il mio maestro (Franco Campioni, ndr) qui in Conservatorio a Milano. Prima di trasferirmi, studiavo in una piccola scuoletta di musica, ho iniziato intorno ai 5 anni e il primo strumento è stata la batteria. Mio padre era un pianista jazz ma era entrato a lavorare in banca perché non c’erano soldi. Ricordo me stesso, in piedi davanti al divano, più alto di me, sopra il quale c’erano sempre adagiate un paio di spazzole: suonavo le copertine dei dischi come fossero dei rullanti accompagnando come riuscivo la musica jazz di sottofondo. Il jazz è stato indubbiamente il primo genere di musica che ho ascoltato e che avrei ascoltato per moltissimi anni, alla musica classica sono arrivato molto dopo.
Ho l’idea che le percussioni siano uno strumento primordiale. Un bambino, ancor prima di cantare, percuote oggetti, giocattoli. Freudianamente parlando, quanto la componente infantile è fondamentale per un percussionista?
Beh, è difficile razionalizzare una cosa del genere ma hai assolutamente ragione quando affermi che percuotere oggetti sia il primo istinto di ciascuno di noi. Il recupero della componente infantile accomuna un po’ tutti i musicisti indipendentemente dall’età anagrafica. Artisti e musicisti trasmettono una certa vitalità e un approccio spesso abbastanza infantile, giocoso, puro e privo di malizie. Magari le attività umane in altri ambiti si raffreddano nel tempo perché spesso il 99,9% degli esseri umani fa cose che non gli va di fare, che non gli piacciono. Chi ha la fortuna di avere delle passioni ha una sorta di continuum nella propria vita perciò continua a fare ciò che appartiene ai primissimi istanti della sua vita. C’è sempre un aspetto ludico in chi fa musica scordare che non si tratta di un gioco ma di qualcosa di estremamente serio.
Poi ha deciso di abbandonare la batteria per le percussioni e il vibrafono. Io penso che il vibrafono sia un buon compromesso tra uno strumento melodico e uno a percussione. L’ha scelto perché le mancava la melodia? In cosa si differenzia l’approccio metodologico rispetto a quello che si ha generalmente con gli strumenti melodici?
La batteria e il vibrafono erano i due strumenti che volevo suonare per il semplice fatto che erano gli unici appartenenti alla famiglia delle percussioni che mi avrebbero permesso di fare jazz. Ho voluto portare avanti entrambi fino a che non ho conosciuto David Friedman, un grandissimo vibrafonista americano che vive a Berlino, con cui sono ancora in contatto. L’ho conosciuto a una masterclass e son rimasto folgorato: gli ho scritto, sono andato a Berlino a fare diverse lezioni… non tantissime in realtà! Ma son state lezioni che hanno cambiato completamente la mia vita e la mia concezione della musica. La batteria è quindi stata accantonata anche perché all’epoca a Milano, nei primi anni ’80, quando studiavo io in Conservatorio, non era facilissimo inserirsi nell’ambiente jazzistico milanese come batterista. Da un certo punto di vista, inoltre, per anni da ragazzino ho provato, in maniera assolutamente embrionale, quello di cui tu mi chiedi, la mancanza della melodia. I grandissimi che ti emozionano quando sei molto piccolo sono Coltrane o Parker o comunque strumentisti a fiato: in loro c’è questa fortissima componente della qualità del suono, del vibrato, di una liricità insita nella loro musica di cui la batteria non è partecipe. Ha altri pregi, la batteria. Ci tengo comunque a sottolineare che il vibrafono è uno strumento obbligatorio all’interno dello studio accademico in Conservatorio e quindi comune a tutti i percussionisti e agli aspiranti tali. Però viene poi spesso abbandonato perché si tratta di uno strumento con un repertorio quasi totalmente appartenente alla musica improvvisata che necessita conoscenze armoniche specifiche soprattutto applicate al pianoforte. In genere tutti preferiscono optare per le percussioni d’orchestra.
Quali sono, secondo lei, le differenze metodologiche d’approccio tra uno strumento melodico e uno a percussione non melodico?
Fondamentalmente i principi sono comuni. in uno strumento come il tamburo che svolge la sua attività solo ed esclusivamente all’interno del ritmo, si può comunque parlare di dinamica, di fraseggio. È abbastanza naturale, soprattutto in ambito orchestrale, che siano gli strumenti melodici ad influenzare gli strumenti ritmici. Ti faccio un esempio molto banale: metti che uno strumento come il tamburo debba accompagnare gli archi in una figurazione del tipo taram-tam-tam (due ottavi legati in giù e due ottavi staccati con arcate in su, ndr). Il tamburo dovrà adattarsi al tipo di articolazione degli archi e alla loro eventuale dinamica al fine di enfatizzare ciò che la sezione sta facendo in quel momento. È interessante anche indagare il contrario e scoprire la funzione biunivoca che si può creare tra strumenti melodici e ritmici: in autori come Piazzolla, per esempio, sono gli strumenti ad arco a dover diventare percussivi con escamotage e artifici quali il latigo, la chicharra o la strapatta. Un’ultima cosa importante da dire: ciò che manca in Italia e nella nostra formazione accademica è lo studio delle capacità espressive del ritmo. Il ritmo viene risolto in poco, metronomicizzato e ridotto al mero “stare a tempo” cosa che nel jazz soprattutto è estremamente riduttivo. In generale nella musica e in particolare nella musica jazz ci sono tanti modi di stare a tempo, tanti modi di stare SUL tempo, AVANTI al tempo, INDIETRO al tempo. Questa cosa non viene insegnata: il modo di stare a tempo suonando Bartók non è il modo di stare a tempo suonando Schubert!
La musica jazz è libertà, è improvvisazione, nasce e muore veramente nel momento della performance… Per un musicista classico è davvero difficile uscire dalla forma mentis della musica scritta: cosa consiglia a chi ha questa voglia di libertà?
È difficile per me rispondere perché io, come dicevo, ho fatto il percorso contrario. Tutta la mia famiglia, i miei zii, gli amici dei miei genitori erano appassionati di jazz, andavano a festival jazz molto spesso e non si ascoltava altro praticamente. Per me è normale essere attratto dall’improvvisazione. Per altri musicisti, anzi per la maggior parte direi, prima ci si approccia alla musica scritta e poi si passa all’improvvisazione: perché questo avvenga non lo so. È un fenomeno misteriosamente nascosto tra le pieghe del nostro subconscio. Una cosa però che io cerco di contrastare quando tengo delle masterclass è l’idea che la capacità di improvvisare sia innata. Io sono in profondo disaccordo: in una piccola percentuale è vero. In tutte le attività umane, c’è chi è più incline di altri a fare ciò che fa. Però è studiando in una certa maniera, seguendo qualcuno che ha più esperienza di te e ti spiega come muoverti per iniziare a improvvisare, trascrivendo “soli” di qualsiasi grande del jazz che si può diventare dei bravi, bravissimi improvvisatori. Il jazz è a-strumentale: chiunque può trascrivere qualsiasi assolo su qualsiasi strumento e venire influenzato dal modus operandi di uno strumentista che però non suona il tuo stesso strumento. Questo rende molto interessanti sia l’osmosi che si crea tra due strumentisti diversi sia le contaminazioni che si creeranno nel fraseggio di entrambi. Per esempio una volta avevo appena finito di fare una gig (performance in gergo jazzistico, ndr) e mi hanno fatto incredibilmente un complimento su qualcosa su cui io davvero avevo lavorato. Mi dissero: perché suoni come uno strumentista a fiato? Avevo lavorato tantissimo su questo ascoltando Fats Navarro, Chat Baker, Dexter Gordon arrivando proprio ad imitare il loro modo di “girare” sugli accordi e mi commuoveva e spiazzava contemporaneamente che qualcuno se ne fosse accorto. Non me l’ha più detto nessuno: magari era solo un pazzo e non è assolutamente vero! (ride)
Negli ultimi anni a Milano ho notato una crescita quasi esponenziale di centri sociali e piccoli locali che organizzano concerti jazz, jam session. Pensa che faccia bene al jazz questo tipo di approccio? Sorseggiare un cocktail ascoltando passivamente quello che accade sul palco non è un modo brutale per delegittimare questa forma d’arte?
C’è da dire prima di tutto che questo è sempre stato un problema del jazz: ci sono meravigliosi dischi incisi in presa diretta in cui si sente il tintinnio dei bicchieri e il chiacchiericcio delle persone di sottofondo. Il parlottio e il rumore delle stoviglie non dà fastidio se non supera un certo volume. Però, e non solo nei locali emergenti e nelle jam giovanili, la maggior parte delle persone è disinteressata e non comprende ciò che avviene sul palco: il Blue Note per esempio è una sorta di multinazionale che è sbarcata a Milano ed è un posto estremamente prestigioso ma anche estremamente freddo. Gran parte della gente che va lì ci va perché è figo andarci, spesso non sa nemmeno chi suona quella sera. È un problema generale delle musiche che vengono eseguite in posti non istituzionalizzati. Nella musica colta, nella musica classica c’è una civiltà d’approccio che sotto un certo livello non scende. Il problema era presente anche nella musica della nostra tradizione. Rossini si lamentava del casino che c’era nei teatri. È, comunque, un elemento inscindibile di tutta la musica jazz: da un lato la rende viva e dall’altro, è vero, ne fa perdere la luce più profonda. Comunque posso dire che tutti noi musicisti jazz adoriamo suonare nei club. Quando ci ascoltano, si crea empatia e contatto col pubblico. Magia, davvero.
Crede nella redenzione musicale? Crede che si possa educare all’ascolto?
Assolutamente sì. Persone di un livello culturale medio-basso possono celare dentro di se capacità d’ascolto e sensibilità inespresse e spesso più profonde di chi ha un background di livello superiore, se proprio si deve fare una gerarchia della preparazione. Semplicemente il loro status sociale non li ha messi in contatto con determinate forme d’arte ma una volta che le scoprono ne rimangono appassionati. È un po’ il concetto che da sempre cerchiamo di portare avanti con Sentieri Selvaggi: educare all’ascolto, appunto. Una volta, soprattutto nel campo della musica contemporanea, si cercava di mandare il proprio messaggio solo a un pubblico di addetti ai lavori: era un vanto sottolineare che la gente non può capire quello che facciamo. Ciò ha generato la morte di determinate stagioni: tanti anni fa c’era una “stagione” che si chiamava Musica del Nostro Tempo che si è consunta da sola con le sue presentazioni filosofeggianti e i suoi paroloni a vuoto dando al pubblico un’immagine completamente distorta e irraggiungibile, noiosa e pedante della musica colta del nostro tempo.
In un’intervista lei ha detto “insegno ai miei allievi a studiare il cambiamento”: penso sia una delle cose più belle che un insegnante possa trasmettere. In cosa consiste un’evoluzione musicale? Quanto può essere improvvisata e quanto invece va predeterminata? È stato sofferto il rapporto suo con la musica e lo strumento?
Intanto c’è da dire che io ho un pessimo rapporto con la musica. Non so bene perché: forse a causa del mio primo maestro o di mio papà che, come dicevo, era dovuto andare a lavorare in banca e lasciare quello che amava davvero. Aveva una visione molto oscura e perentoria della musica. Per quanto possibile cerco con i miei allievi di mitigare questo sentimento che io ho avuto, e tutt’oggi ho, educandoli proprio ad avere un rapporto pacifico con essa, per quanto possa essere sereno il rapporto con una passione. Il termine passione deriva dal verbo latino patior, patire: è qualcosa che tu ami ma anche qualcosa che ti fa male, ti distrugge a volte. Duke Ellington diceva “Music is my mistress”, la mia padrona. Cerco di dare ai miei allievi molta più sicurezza, molta più sana competizione e cerco soprattutto di metterli sempre davanti a un muro di limiti da superare. L’evoluzione musicale è quel muro: di anno in anno, mentre studi, mentre suoni, durante la carriera cerchi di spingere sempre il muro un po’ più in là ma questo rimane sempre lì, non cade mai. Quello che bisogna fare è trasmettere l’accettazione del muro.
Senza per forza essere Nostradamus: cosa pensa del futuro della musica jazz e della contemporanea in particolare? Tra i giovani vede ancora talento ed entusiasmo o negli anni è sempre più raro?
Come in tutti i generi artistico-musicali si va avanti attraverso un’opera di sintesi di quello che c’è stato prima e ci si lascia influenzare da ciò che sta avvenendo in quel momento. Questo spesso genera cose diverse: io non credo mai e mi ha sempre dato molto fastidio chi dice «questo non è più jazz, non è più classica…». Si è molto altezzosi a dire così, sarebbe come affermare in assoluto che IO so cosa è il jazz, IO so cos’è la classica e dico che questo assolutamente non lo è più. Si tratta di un atteggiamento schifosamente supponente e pretenzioso. Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Il jazz ha circa 120 anni di storia ma banalmente se prendi un pezzo di Berio e uno di Monteverdi crederesti davvero che fanno parte dello stesso fluire? Che siano due musicisti italiani distanti solo 500 anni? La musica è in divenire. Per quanto mi riguarda io amo suonare con musicisti in cui ci sia sempre qualcosa che richiama il jazz del passato, contaminazioni di grandi che mi hanno tanto commosso e che ciclicamente rivedo in altri e ritornano in me. Il lavoro che compie ad esempio Wynton Marsalis, con quel suo continuo riproporre e cristallizzare dettami classici fondando una sorta di neoclassicismo jazzistico, penso che sia il peggior servizio che puoi fare a una musica. Se c’è una cosa che ci insegnano i grandi del passato è il costante cambiamento: Parker e tutti i grandi erano in continua evoluzione ed è in piana contraddizione voler cristallizzare qualcosa e qualcuno che non avrebbe mai voluto fermarsi e che, se solo non fossero morti così giovani, non avrebbero mai smesso di compiere metamorfosi.
Se dovesse scegliere: jazz o contemporanea?
Assolutamente jazz.
Come è venuto a contatto con Sentieri e quando? Mi racconta la prima volta?
Indubbiamente attraverso Carlo, siamo amici da quando abbiamo 15 anni. È una delle prime persone che ho conosciuto quando sono arrivato a Milano e abbiamo suonato insieme in un sacco di gruppi prima della fondazione di Sentieri: prima il gruppo dei percussionisti del Conservatorio di Milano perché anche Carlo studiava percussioni, poi in un altro ensemble in cui facevamo però musica da camera (Harmonia Ensemble) e dopo qualche anno Carlo mi parlò di questo progetto che aveva con Filippo Del Corno e Angelo Miotto chiedendomi se mi andava di partecipare. Facemmo una riunione a Radio Popolare e… basta.
Mi sono informata e ho scoperto che Boccadoro le ha dedicato diverse composizioni: il fatto che una composizione non sia mai stata eseguita e, soprattutto, sia stata dedicata a Lei, cambia il suo approccio nell’eseguirla e nello studiarla? Come si è evoluto il suo rapporto personale con Carlo?
In questo caso torna molto utile l’esperienza come improvvisatore. I compositori di musica contemporanea che mi piacciono richiedono proprio la partecipazione attiva dell’interprete. Forse era così anche nel passato, anche Beethoven voleva partecipazione da parte degli strumentisti. C’è un aneddoto su Ravel abbastanza eloquente: un direttore stava dirigendo una sua composizione e continuamente gli chiedeva consigli su come andassero eseguiti i crescendi, i respiri… Ravel, dopo la terza volta che costui cercava approvazione disse: «Senta. Faccia finta che io sia morto!». L’esecuzione del brano scritto è qualcosa di relativo al momento: Leonard Berenstein dopo una certa età non ha più voluto registrare brani se non dal vivo. Mi piace sempre farmi un’idea del brano. Con Carlo non si pone neanche il problema di imporsi di essere propositivi perché è lui stesso il primo a lasciarti molto libero, non è assolutamente uno strutturalista, gli piace che venga messo in luce un carattere più che la precisione capillare con cui suoni il determinato passaggio. Vuole un certo tipo di verve ritmica, di energia che sta cercando. Carlo è un caro amico e per forza di cose, crescendo, ci vediamo di meno. Però è inevitabile che, se è un po’ che non ci vediamo, ci si chiami per sapere come va, cosa stiamo facendo. Ricordo che uno dei primi argomenti affrontati con lui, paradossalmente, è stato il cinema. Entrambi molto appassionati di cinema anche ora quando ci vediamo capita spessissimo di discuterne quasi a ritornare ai quei primi momenti.
Per ricollegarci allo studio del cambiamento: come sono cambiati i Sentieri in questi 20 anni?
Magari standoci così dentro noi neanche ce ne rendiamo conto. Più che su ciò che è cambiato mi viene più facile riflettere su ciò che è rimasto: la nostra filosofia è quella di suonare gli autori più diversi, non avere barriere estetiche, rimanere coesi e perseguire un obiettivo comune. Forse quello che è cambiato è che prima eravamo un po’ più sfigati, senza fondi e a rischio bancarotta. Adesso siamo messi un pochino meglio nonostante i tempi biblici italiani. Siamo in un paese vecchio ma non solo nel senso di mentalità e tradizioni, nel senso più lineare di vecchiaia: le persone anziane non sentono bene, non capiscono più bene, sono lentissime nei movimenti, il cambiamento è visto con sospetto e circospezione. Non se ne può più. Bisogna rassegnarsi a percepire solo vagamente il cambiamento senza ambire di vedere l’esito finale dell’evoluzione, qualsiasi essa sia.
Ha un Selvaggio preferito?
Carlo, per ovvie ragioni. Con gli altri strumentisti siamo davvero un’entità unica.
L’uomo con la macchina da presa è un film di Vertov, cardine della storia del cinema: il regista professava la necessità del film-documentario a servizio del popolo. Ho trovato strana la scelta del titolo (Man with a movie camera ndr) del vostro concerto su musiche di Nyman di lunedì scorso, considerata la posizione purtroppo elitaria della musica contemporanea. Quanto la musica di Nyman (che ha scritto importanti colonne sonore ndr) è a servizio del popolo? Senza immagini d’accompagnamento come cambia la percezione della musica del compositore londinese?
Direi di parlare più che della musica di Nyman del rapporto tra musica e immagini: ci sono dei bravissimi compositori di colonne sonore che scrivono in funzione dell’immagine, per l’immagine. La loro musica non può essere indipendente proprio perché il loro fine non è quello di essere indipendente dall’azione filmica. In generale, comunque, non mi piace fare il parallelismo tra semplicità compositiva e maggiore comprensibilità. Si presuppone che il popolo necessiti di esser preso per mano e condotto a capire determinate cose. Non è così. Mi è capitato, come dicevamo prima, di vedere persone non avvezze all’ascolto, non colte che apprezzavano profondamente anche brani estremamente complessi. Per il nome dell’evento non so dirti bene… forse perché Nyman di recente ha musicato il film di Vertov, non ne ho idea. Bisognerebbe chiedere a Carlo!
Fresu, due mesi fa al Blue Note, ha detto esplicitamente che non dedichiamo più tempo al tempo: lei al tempo e al ritmo musicale penso sia piuttosto legato, considerata la sua professione. In che rapporto è con esso?
Penso di avere col tempo il rapporto che hanno tutti. Col passare degli anni ho notato una profonda accelerazione del tempo: ad una certa età le cose si muovono ad una certa velocità e man mano che vai avanti sembra quasi che i freni dell’auto necessitino di revisioni sempre più frequenti. Questo fa si che le cose ti sfuggano di mano. Ho l’impressione che tutto fluisca troppo velocemente perché tu riesca a comprendere ciò che fai e, soprattutto, a gioire veramente di ciò che fai. La sensazione è quella di arrivare alla fine e non avere né compreso né gioito abbastanza di quello che si è fatto. Ho paura davvero del tempo che passa sia dal punto di vista umano che artistico. Di cosa? Ho solo paura che passi perché è come afferrare l’acqua con le mani: puoi vederne la chiarezza, sentirne la freschezza ma subito dopo si disperdono entrambe. La maledizione è insita nel passare, che è la fondamentale caratteristica del tempo.
Mentre altri accordano violini e violoncelli, Mirco Ghirardini, clarinettista dell’ensemble, invece si è messo davanti allo specchio dei camerini dell‘Elfo Puccini prima del concerto per raccontarsi e raccontarci il suo controverso rapporto con la musica.
Come hai scelto il tuo strumento e come è cambiato il tuo approccio alla musica negli anni?
Nasco da una famiglia di musicisti dilettanti. Tutti suonavano per diletto. Male. (ride) Sono il primo che ha deciso di fare il musicista di mestiere: erano tutti grandi appassionati, i miei…ma niente di professionale. Ricordo grandi feste in cui si suonava insieme. I miei parenti suonavano principalmente ottoni in ambiente bandistico. Avevo uno zio che suonava un clarinetto ed io, che non sono mai riuscito a suonare gli ottoni, optai per questo strumento che mi piacque sin da subito. In realtà ho avuto esperienze un po’ variegate prima di scegliere il clarinetto: ho suonato la batteria, suonavo in un gruppo rock che si chiamava Commozione Cerebrale. (ridiamo)
Sembra il nome di una delle troppe band indie italiane di adesso!
(ride) Esatto! Ho suonato anche la chitarra! Comunque come studi accademici son sempre stato affezionato al clarinetto. Ho iniziato non prestissimo, avevo circa 11 anni. Son stato iscritto un po’ controvoglia al Conservatorio di Reggio Emilia: mi spaventava moltissimo iniziare degli studi accademici ma ho avuto il privilegio di incontrare un insegnante meraviglioso che mi ha davvero fatto innamorare completamente dello strumento ma soprattutto della musica. Questo terrore iniziale, con pazienza, entrando in punta di piedi nell’ambiente accademico e nella forma mentis dello studio metodico, in un crescendo continuo, si è trasformato in viscerale passione.
Non so bene perché ma appena ti ho visto mi hai dato l’aria di un architetto o di un designer… Hai mai pensato di fare altro?
(ride) Beh, ci hai preso! Ho una certa sensibilità per il mondo della moda e del design. Non so bene come dirti ma fare musica è stato qualcosa di inevitabile: ad un certo punto ho capito che non potevo davvero fare un’altra cosa, anche se ci ho provato. Io ho fatto studi tecnici, ragioneria precisamente. Sbagliando perché quel genere di argomenti proprio non mi interessa. Sono arrivato alla maturità, l’ho superata e basta. Nei primi momenti, quando non si riusciva, appena diplomati in Conservatorio, ad inserirsi nel mondo del lavoro, ho fatto anche dei colloqui come ragioniere ma regolarmente mi è stato detto, regolarmente, che io avrei avuto successo nella musica. Cosa che comunque non è avvenuta. (ride) Però almeno ne ho fatto una professione e lo rifarei all’infinito.
È strano quando intuisci profondamente che un determinato campo è IL TUO campo e cerchi di capire sempre più a fondo il perché di questa calamita che ti attrae in quella direzione…
Assolutamente! C’è da dire che tutta la mia strada fino ad oggi è stata molto variegata. Ancora oggi tengo il piede in più scarpe nel senso che ho fatto per anni il direttore di operetta, suonavo le percussioni in una compagnia, mi son dedicato alla musica popolare però nella mia testa c’è sempre stata la musica “di oggi”. Ho sempre pensato che un musicista debba suonare principalmente la musica del suo tempo, conoscendo e interiorizzando, certo, tutta la tradizione del passato. Però, davvero, fin da ragazzo ho sempre sognato di suonare in un ensemble di musica contemporanea. Questo è avvenuto insomma…
In effetti nella storia della musica, in generale, chi faceva lo strumentista suonava la musica del suo tempo, non quella del passato. È negli ultimi 100 anni che questa tendenza è scomparsa… perché pensi ci sia stata quest’inversione di rotta, questo giro di timone?
Hai ragione. Secondo me è cambiata perché la musica ha assunto dei codici più difficili quindi la gente ritiene che sia più difficile da comprendere. Indubbiamente la comprensione della musica contemporanea, così come di qualsiasi altra forma d’arte contemporanea probabilmente richieda uno sforzo. È difficile sforzarsi di capire, andare incontro, di petto, a qualcosa. In generale, comunque, la mia tendenza, che si è acuita negli ultimi anni, è quella di prediligere l’aspetto espressivo e comunicativo della musica, a prescindere dalla categoria a cui essa appartiene. L’esecutore è molto importante secondo me: non è soltanto il tramite tra il compositore, la pagina scritta e il pubblico. L’esecutore è una persona, pensante e dotata di libero arbitrio sulle suo proprie scelte stilistiche. C’è una frase che diceva sempre il mio insegnante: «Attraverso un pezzo di canna, un ancia, l’anima del compositore e dell’esecutore si congiungono».
Visto che stiamo parlando di esecutori: come affronti un brano che non è mai stato eseguito?
Allora: c’è un primo approccio di lettura, nel quale si cerca fondamentalmente di capire le difficoltà tecniche poi nel momento delle prove si cerca di guardare il brano da lontano. Come quando guardi la mappa di una città per capire come quella è costruita, che tipo di struttura ha, come si incrociano tra di loro le strade e i vicoli. Secondo me questo tipo di distacco iniziale, di osservazione aerea, è fondamentale anche quando si suona un pezzo di musica da camera. Cerco comunque in assoluto di interagire con il compositore. Si ascoltano le sue indicazioni, cercando di creare un rapporto osmotico con lui e la sua musica. Io ho capito negli anni che se ho una visione complessiva della partitura, l’interazione con il compositore è sicuramente più naturale. Sia che il compositore sia in vita, sia che non lo sia più. Anche quando si suonano pezzi per strumento solo non si tratta di suonarli nota per nota, ma invece di vederli da lontano e capire cosa succede man mano che la partitura evolve, come in una pièce teatrale. La musica ha sempre un aspetto drammaturgico: io mi sento sempre un attore quando suono, un attore che comunica. Cerco nella musica di trovare un linguaggio che cambia: in un momento uno è arrabbiato, in un’altro è dolce. I Sentieri creano questa magia, è un ensemble che riesce a fare questa cosa.
Che cosa fai quando non suoni o non insegni?
Mi piace molto la letteratura. Da un po’ di anni seguo un collettivo di scrittori emiliani che vanno da Cavazzoni, a Paolo Nori, a Ugo Cornia. Sono scrittori contemporanei, calati nella realtà. Ho collaborato con loro e fatto tante cose, letture musicate. Mi piace correre. Mi piace molto il vino, prediligo i bianchi e gli champagne. Purtroppo seguendo una dieta vegana i vini rossi sono un po’ pesanti per la mia dieta! (ride) Dicevo che mi piacciono molto gli abiti e i vestiti. In generale, non so se è una banalità, ma mi piace molto emozionarmi. Cerco sempre l’emozione nelle cose. Anche con le cose più tecniche o scientifiche, apparentemente asettiche e che magari non toccano certe corde come vorrei, cerco sempre di entrare in sintonia. È indole naturale.
Vivi molto vicino alla ex capitale dell’impero bizantino…Cosa ti manca di Ravenna quando sei in giro? È un ambiente culturalmente e musicalmente stimolante?
Beh, c’è da dire intanto che non lavoro più a Ravenna. Adesso insegno al Conservatorio di Teramo. Però son stato adottato da Milano, son qui dal 1989. Non sto mai tanto fermo. A Ravenna comunque ho insegnato per 9 anni ed è una città straordinaria. Non soltanto per i monumenti e i mosaici ma anche per le persone. A scuola, a Ravenna ho trovato persone molto affini a me anche se l’ambiente era molto tradizionale. Ho un tantino la presunzione di dire di aver portato un po’ di novità, essendo appassionato di musica contemporanea.
Ecco, a proposito, sei estremamente attivo nella musica contemporanea: come ti sei avvicinato ad essa? Quali analogie ci sono e quali differenze tra i diversi ensemble di cui fai parte (Icarus, Sentieri, Usignolo) ?
Beh, Icarus si è sempre dedicato a dei repertori diversi rispetto a quelli approfonditi da Sentieri. A Milano, con Senteri, l‘attività è ovviamente maggiore e la differenza fondamentale è che l’ensemble milanese è nato con musicisti che lavorano a stretto contatto tra loro. Siamo insieme dall’inizio, dal primo concerto. Per caso. Sono venuto a Milano per una sostituzione durante il primo concerto, poi ne ho fatta una durante il secondo e anche il terzo. Son passati gli anni e a un certo punto mi hanno inglobato e chiesto di rimanere. I primi momenti son stati strani: io sono arrivato e non conoscevo nessuno ma ho sempre ricevuto una calda accoglienza e mi han fatto davvero sentire parte attiva di qualcosa che cresceva e mutava. Si è cresciuti insieme, c’è un approccio alla musica comune. Questo rende le cose più facili e dopo 20 anni è una caratteristica chiara a tutti. Abbiamo trovato un suono.
Carlo Boccadoro: che tipo di direttore è e come affronta la materia musicale?
(respira e guarda silenzioso un punto) Carlo è stato per me… non so bene come definire… Mi ha fatto conoscere un’immane quantità di cose. Gli posso essere solo grato, veramente. C’erano mondi che io non conoscevo: ad esempio quando io sono arrivato qua avevo suonato solo avanguardia europea, conoscevo poco dei neoromantici, degli autori americani. Lui mi ha fatto scoprire degli autori, della musica che non avrei mai avuto modo di approfondire. Adoro il suo approccio alla materia musicale: è istintivo, ha una facilità con la musica molto spiccata, una roba incredibile. Capisce subito al volo e la fa andare. Invidio la sua conoscenza, ha una sete di sapere sterminata e una memoria sorprendente.
Fammi tre esempi di composizioni che consiglieresti a chi per primo si avvicina alla musica contemporanea.
Non è così semplice: direi sicuramente Folk Songs e Laborintus II di Berio. In realtà qualsiasi brano va bene: l’importante è che uno si apra e cerchi di capire cosa vuole dirti chi scrive. Ma anche se non capisci, basta che ti lasci impressionare in qualche modo da un linguaggio non convenzionale. Secondo me è una cosa che oggi manca molto, la curiosità in generale. Sento non tanto il disinteresse ma la noia delle persone. Pensano di aver già sentito tutto. La macchina dello stupore bisogna farla andare, oliarla. Bisogna lasciarsi stupire dalle cose, non aspettare che ti piova dall’alto un incudine che ti scrolli. Riscontro questa dicotomia anche nei miei allievi: c’è chi sta immobile e chi si lascia stupire dal contemporaneo. Bisognerebbe davvero imparare a non avere preclusioni e barriere.
Con l’Usignolo dal 2004 porti avanti un progetto particolare: come è avvenuta la scelta di approfondire la musica da ballo 800-900esca?
Da ragazzo io mi sono mantenuto suonando ai funerali con la banda e lì ho conosciuto questi vecchi che avevano suonato nei Concerti a Fiato e parlavano sempre di queste musiche, del Concerto Cantoni. Dalla seconda metà dell’800 fino agli anni ’50 del secolo successivo, nelle mie zone, nel parmense e nella provincia di Reggio Emilia c’erano delle famiglie che componevano le musiche e le suonavano. Appunto i Concerti a Fiato. Avevano un sacco di successo, di fan, le persone li seguivano. Montavano i palchi, nei festival venivano chiamati più gruppi diversi che si sfidavano tra di loro. La cosa mi aveva colpito tantissimo e mi son messo ad ascoltare i vecchi 78 giri, i vecchi che avevo conosciuto mi spronavano ed è nato così l’Usignolo. Bernardo Bertolucci si è servito in moltissimi dei suoi film di questo tipo di musiche: Novecento, La Tela del Ragno. Quando vinse l’Oscar per L’Ultimo Imperatore, andai a suonare con il Concerto Cantoni nello stupendo castello di Torrechiara. Devo dire che con l’Usignolo abbiamo fatto riemergere questa musica ricoperta di terra emiliana.
Immagine di copertina di Giovanni Daniotti